È arrivato un primo e molto articolato giudizio tecnico sulla Nadef, la relazione di aggiornamento di settembre che di fatto prepara la legge di bilancio, e si è trattato di una quasi bocciatura, anche se dai toni moderati come si addice in un documento ufficiale, da parte dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio.
D’altronde era quasi impossibile per i tecnici del bilancio pubblico esprimersi in maniera differente. Stavolta c’è qualcosa in più della consueta constatazione che molti argomenti proposti dal governo sono poco chiari, altri non ben valutati, altri eccessivamente fiduciosi e così via secondo un consueto rosario di giustificazioni improntate all’ottimismo di stampo governativo.
La Nadef 2023 prevede, in sostanza, una piena violazione della regola europea del 3% del rapporto deficit/Pil, non solo per il 2024, ma anche per il 2025. Il disavanzo previsto sarà pari al 4,5% nel 2024, al 3,6% nel 2025, solo nell’ultimo anno di programmazione arriverà al 2,9%. Le prossime manovre finanziarie, di conseguenza, saranno finanziate abbondantemente in disavanzo. In particolare per l’anno prossimo l’extra deficit è stimato in uno 0,7% del Pil, con un recupero di risorse quantificabile attorno ai 15 miliardi a disposizione dell’esecutivo. Questo ulteriore debito ci porta diritti verso una rischiosa procedura per infrazione. Con le parole paludate dei tecnici: “Se fosse confermato un risultato a consuntivo per il disavanzo superiore al 3% per il 2023 e il Governo dovesse confermare una violazione del limite del 3 per il 2024 e nel 2025, vi è il rischio che nella primavera del 2024 la Commissione europea proponga al Consiglio di aprire una procedura per deficit eccessivo per l’Italia” (p.56). Non è la prima volta che questo accade per l’Italia ma è nuova la spavalderia governativa.
La richiesta all’Europa di un ulteriore indebitamento è una scelta, per un paese già così indebitato come il nostro, di per sé molto rischiosa e imprudente. In effetti, il percorso di riduzione del debito è stato di fatto sospeso, in barba al famoso ma totalmente ignorato art. 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio portato in approvazione, peraltro, dal governo Berlusconi e dunque dalle destre. Lo è ancora di più se si va a vedere per quali motivi vengono accesi ulteriori debiti. In fondo, quando ci indebita la quesitone fondamentale è la ragione per cui si chiedono ulteriori risorse.
Su questo punto non c’è alcun mistero, ma anzi un’ostentazione di demagogia governativa. Giorgetti chiede al Parlamento un nuovo e sostanziale scostamento non per far fronte a circostanze economiche eccezionali come richiede il Fiscal Compact, ma semplicemente per pagare due cambiali elettorali: la promessa di una riduzione dell’Irpef e soprattutto la promessa, new entry peraltro nel dibattito fiscale, di una riduzione permanente degli oneri sociali per i lavoratori dipendenti a spese della finanza publbica.
Sul primo punto le carte sono ancora coperte e vedremo quanto realmente porterà nelle tasche dei cittadini. Sul secondo le cose sono più chiare, e si va a confermare lo sconto per quest’anno che assorbirà buona parte del nuovo debito. Dunque non vi fanno debiti per finanziare gli investimenti, come suggerisce una vecchia saggezza economica, ma semplicemente per ridurre il carico fiscale. Riduzione peraltro limitata al 2024, è probabile, come quella dell’anno scorso. Un debito poi, quello per ridurre i contributi, doppio – come abbiamo già osservato – perché non va ad intaccare i requisiti pensionistici.
Con Giorgetti si afferma il modello populista di una finanziaria fluida, da calibrare anno per anno a seconda delle convenienze del momento. La riduzione, a debito, delle tasse promessa nella scorsa campagna elettorale è giustificata dal ministro come un necessario incentivo alla crescita economica, secondo il modello fasullo della teoria di Laffer, meno tasse eguale più crescita, ampiamente smentito dai fatti. Osservazione confutata anche dalla stessa relazione dell’Upb che parla di spesa a debito con un basso moltiplicatore economico. L’impatto, invece, se lo si vuole cercato, è saldamente demagogico-elettorale in funzione delle elezioni del 2024. A legge approvata, il ministro potrà dire di aver rispettato gli impegni presi in campagna elettorale. Poco importa se queste spese sono finanziate a debito e se avremo scarso o nulla impatto sulla crescita economica che dipende dagli investimenti e non dalla spesa. Quindi si va verso una finanziaria miope e di cortissimo respiro, un chiaro esempio di irresponsabilità finanziaria. Qui il populismo economico è saldamente all’opera con tutti i suoi guasti.
Poi, per accontentare l’opinione pubblica e forse il censore europeo, sempre Giorgetti ha promesso una disciplina di controllo ferreo della spesa dei ministeri. Si preannuncia quindi un ulteriore giro di vite della spending review nella scuola, sanità, e così via? Per ora, gli unici a patirla sono stati i pensionati e i dipendenti pubblici. Staremo a vedere cosa prevedrà in dettaglio la prossima legge di bilancio su questo punto non secondario. Intanto dall’Upb è arrivato un primo e importante semaforo rosso, ma è probabile che il fanatico convoglio populista non si fermi, preferendo lo scontro frontale, che sembra portare sempre un po’ di voti, ad una naturale dialettica con nostri partener europei.
Nel frattempo anche l’Economist recentemente ha trovato il tempo di occuparsi in un breve articolo del debito pubblico italiano e dall’estero si giudicano i piani fiscali dell’Italia di Giorgetti una fantasia, nel breve periodo, un incubo, nel lungo periodo, soprattutto per i lucrosi tassi di rendimento dei titoli di stato con cui il governo corteggia i risparmiatori nostrani. Che anche i mercati internazionali dei capitali siano nemici dello sciupone popolo italiano? L’andamento dello spread che da qualche settimana sta salendo non è un buon segnale.