Persino il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, presenta l’invasione israeliana di Gaza come qualcosa di lungo e difficile. Questo perché, come sostiene l’esperto militare John Spencer, le città sono piene di strutture ideali per scopi di difesa militare, ben al di là di quello che comunemente ci aspettiamo: grandi edifici governativi, complessi dirigenziali o impianti industriali hanno pareti e tetti in cemento armato massiccio e rinforzato con acciaio che li rendono capaci di resistere per un periodo non breve a molte armi, anche moderne. Chi si difende in un contesto urbano può usare migliaia di luoghi favorevoli nella giungla di cemento: parliamo di edifici, finestre, vicoli ma anche buche delle fogne e spesso veri e propri bunker, dove nascondersi senza paura di essere scoperti o anche solo raggiunti facilmente. Senza dimenticare i famigerati tunnel di Hamas. Non visti, i difensori possono anche scegliere il momento del contatto con la forza in avvicinamento: insomma, possono applicare tattiche di guerriglia (trappole esplosive, imboscate, attentati a singoli o pattuglie isolate) per attaccare e poi sparire nel nulla.

Non si deve pensare che per ovviare a tutto questo sia sufficiente radere al suolo fisicamente i grandi edifici per togliere punti di riferimento ai difensori: i casi di Mariupol, Severodonetsk e Bakhmut dimostrano che questo non è cosa né semplice né immediata: se gli spazi aperti a colpi di missile e di bulldozer sembrano il terreno ideale per le avanzate rapide, in realtà sono il regno dei cecchini che colpiscono truppe scoperte e il posto perfetto dove disperdere mine anticarro e antiuomo, la cui realizzazione da parte di Hamas è quasi certa. Per non parlare dei droni di entrambe le parti, che nelle città diventano gli occhi lunghi degli schieramenti, anche se sono particolarmente esposti e richiedono un continuo ricambio. Insomma, chi è assediato potrebbe finirli, presto o tardi.

Le forze israeliane nella Striscia di Gaza dovranno inoltre gestire decine, forse centinaia di postazioni fortificate da bonificare. Ma anche tunnel scavati nel terreno sabbioso, facili da costruire ma non certo indistruttibili come l’Azovstal di Mariupol, in cui forse saranno piazzati come scudi umani gli ostaggi di cui nessuna delle due parti ha ancora indicato il numero. E questo accadrà non in una città-stato con sola campagna attorno, ma in una costellazione di centri abitati estesa per 365 chilometri quadrati, bagnata per un tratto di quasi 40 chilometri dal Mar Mediterraneo, con a sud-ovest i quasi 12 chilometri di confine con l’Egitto e il territorio israeliano sul lato orientale, lungo un fronte di circa 50 chilometri. Tutto questo riguarda un territorio profondo appena dieci chilometri.

Partendo dal sud, stretti tra la costa con edifici bassi nell’entroterra e la vasta area urbana di Rafah a sud, oltre alla recinzione del confine con Israele, troviamo un gran numero di capannoni e magazzini, adatti sia alla produzione e allo stoccaggio di armi e sistemi d’arma sia, soprattutto, alla difesa: più che la qualità degli edifici è la quantità che li rende utili in tal senso. Dall’area circostante Khan Yunis il paesaggio cambia: strade larghe e vicoli costituiscono una rete ben conosciuta dagli israeliani e priva di grandi edifici industriali. La presenza di alcuni campus universitari potrebbe servire sia per la difesa sia per inscenare dimostrazioni a scopo di propaganda, una volta che le truppe israeliane entreranno in contatto con queste strutture. Da qui in poi, mentre il territorio palestinese si fa via via più stretto, una parte di terre agricole e alcuni magazzini coprono le spalle al corpaccione della stessa Gaza City e delle sue città satellite, caratterizzato da una rete di strade urbane fitte ma non priva di vie particolarmente estese in larghezza e in profondità nell’area urbana. Dal lato della costa, invece, l’area più densamente abitata non è quasi mai a ridosso del mare.

Insomma, uno scenario in cui agli attacchi dell’aviazione, come sempre precisi e puntuali, farà prima o poi seguito l’avanzata della fanteria e, molto probabilmente, anche dei marine, puntando verso i complessi industriali della parte meridionale e ai magazzini di quella settentrionale che non saranno stati abbattuti dagli attacchi aerei, ma anche cercando di disarticolare la macchina militare di Hamas e degli altri gruppi terroristici presenti in loco. È molto improbabile che Israele si lasci sfuggire l’opportunità di prendere il controllo delle vie della logistica verso i centri abitati. Le Forze di Difesa Israeliane (Idf) cercheranno, per i motivi detti all’inizio, di minimizzare le occasioni di penetrare nelle aree più densamente nel tentativo di evitare perdite non sostenibili nel medio-lungo periodo da parte di quella che è la formidabile macchina militare di un Paese comunque molto piccolo ed esposto anche sul fronte libanese e su quello siriano. Questo non vuol dire che non affronteranno devastanti combattimenti urbani e non sbricioleranno i principali edifici amministrativi della Striscia, ma solo che Israele cercherà di non perdere la guerra sul fronte interno contando troppe vittime e troppi soldati rapiti o feriti. Il caso dell’America dopo l’undici settembre dimostra che prima o poi l’opinione pubblica supera gli shock più gravi e cerca la normalità, a costo di non vincere certe guerre. Sarà molto più difficile la gestione del caso degli ostaggi: se la guerra, come è stata scatenata, sarà davvero totale, allora ben pochi faranno ritorno a casa, dato che non sono negoziabili.

Dal punto di vista dei difensori di Gaza, tutto dipenderà non solo dallo scenario internazionale, ma anche dalla tenuta del fronte interno. Gli abitanti della Striscia sanno perfettamente che Hamas li ha portati al macello senza un vero e proprio piano per vincere qualcosa. La guerra totale annunciata da Israele in questi giorni non ammetterà compromessi che salvino la pelle o il potere degli attuali capi di Gaza: il fatto che persino esponenti di primo piano di Hamas dichiarino che la decisione di attaccare è stata presa da pochi la dice lunga. Per guadagnare tempo, in attesa dell’imprevedibile e magari sperando che qualcosa diventi negoziabile, Hamas ha solo l’interesse a trascinare l’Idf in una guerra urbana lunga e logorante. Così come di gestire gli ostaggi non fino al loro esaurimento, ma per legittimare mediatori terzi: nessun ostaggio vuol dire guerra ancora più totale. Come combattere la guerra urbana, insomma, sarà la più grande sfida per entrambi: per Israele vale la sicurezza, per Hamas l’esistenza.

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