Qual è la temperatura dei movimenti per il clima in Italia? Sono ancora vitali come ai tempi delle manifestazioni di Greta Thunberg? Venerdì 6 ottobre i Fridays For Future sono tornati a sfilare in 35 città italiane, dopo 6 mesi dagli ultimi cortei, con migliaia di giovani in piazza. Non i 400mila del primo “sciopero climatico” del 2019, che portò alla ribalta il movimento dei giovani seguaci di Greta Thunberg, ma abbastanza per far pensare a una ripresa delle mobilitazioni ecologiste, nella loro versione giovane e metropolitana, diversa ma tangente rispetto alle proteste territoriali contro le grandi opere o l’inquinamento. Ci scommette anche il World Congress for Climate Justice, che dal 12 al 14 ottobre a Milano riunisce alcuni dei gruppi ambientalisti più radicali, dai Soulèvements de la terre francesi ai Fridays for future a Extinction Rebellion e Ultima generazione, nelle varie declinazioni europee.

Sulle trasformazioni del movimento dei giovani ecologisti ha riflettuto Emanuele Leonardi, autore del saggio L’era della giustizia climatica (Orthotes) con Paola Imperatore (già autrice per Mimesis di un altro saggio sulle lotte ambientali, Territori in lotta). La tesi degli autori è la seguente: dai primi “scioperi per il clima” alle campagne di oggi contro l’Eni o gli imbrattamenti di edifici, i movimenti ecologisti i si sono “specializzati”, e “politicizzati”, passando da un ecologismo generico e “aggregativo”, che faceva incontrare persone alla prima esperienza politica, a un movimento più critico e radicale, numericamente meno consistente ma anche più efficace sul piano politico.

Da Greta a Big Oil – “Quando arriva sulla scena di Greta Thunberg, a fine 2018 – spiega Emanuele Leonardi al Fatto -, si cominciano a tirare le somme della climate governance e del ‘capitalismo verde’ e se ne constata il fallimento. Nel trentennio tra il 1990 e il 2018 è stata emessa più CO2 equivalente che in tutto il secolo precedente”. Era un impulso di sfiducia verso i governanti, spiega il ricercatore in sociologia dell’Università di Bologna, che contestava le politiche adottate tra fine anni 90 e inizio anni 2020 e in cui l’alpha e l’omega sono Protocollo di Kyoto del 1997 e nell’accordo di Parigi negoziato nel 2015 alla Cop21.

Appena nati, i Fridays for future si definivano così: “Siamo un movimento di persone che si rivolge a tutta la società. Lottiamo per fermare il cambiamento climatico, rilanciando gli allarmi della comunità scientifica e denunciando le mancanze dei governi”. Oggi, a quattro anni dal primo sciopero del clima del 15 maggio 2019, i ragazzi dei Fridays, nel frattempo affiancati da nuovi gruppi come Ultima Generazione e Extinction Rebellion, identificano il problema delle emissioni di gas serra con una serie di attori, ossia le grandi multinazionali del fossile, e hanno unito l’ecologia alla giustizia sociale. Si veda l’ultima campagna #EndFossilFuel contro i colossi petroliferi.

Lo stop del Covid e la maturità politica – A concorrere a questa trasformazione una maturità politica acquisita col tempo e con il confronto con gli altri movimenti sociali, oltre che la battuta d’arresto imposta dalla pandemia di Covid, che a partire dal 2020 e per almeno un anno e mezzo ha impedito di scendere in piazza. Dice ancora Leonardi: “In quel periodo abbiamo assistito a tentativi non di mobilitazione ma di riflessione, di costruzione discorso politico e di analisi. Si è preferito chiarire la prospettiva politica piuttosto che tornare ad avere un carattere di massa ma generalista. quindi da un lato hanno perso carattere di massa ma dall’altro hanno acquisito radicamento territoriale, su una serie di vertenze che mettono in discussione le grandi opere fossili che hanno meno visibilità mediatica ma un’efficacia pratica migliore”. Uno scarto, secondo Leonardi, segnato anche dall’alleanza con Gkn, “sodalizio che si è visto all’opera negli ultimi due anni” e che secondo il ricercatore non sarebbe stato possibile all’inizio del movimento di Greta.

Riscaldamento climatico e disuguaglianze: le lotte sociali – “È vero che oggi gli scioperi climatici non hanno più il carattere di massa del 2019, ma in compenso hanno raggiunto un livello di ‘chiarezza ideologica’ che li rende attori credibili sul piano politico, fa sì che possano avere un impatto reale nella politica dei Paesi in cui agiscono”.

Nel 2019 le rivendicazioni erano più che altro gridi di allarme e il punto di riferimento era l’IPCC. “Le prime proteste si concentravano su ‘cosa dobbiamo fare’ per invertire la rotta, oggi il punto è chi paga la crisi climatica”. Il riscaldamento globale è una questione di diseguaglianza. Prima l’asse della disuguaglianza era quello nord-sud, oggi si arricchisce e incorpora la questione sociale classicamente intesa”. Come si è visto nelle occupazioni universitarie della primavera 2023, il movimento Fridays for future ha incrociato le traiettorie dei collettivi studenteschi.

Nella lettura di Emanuele Leonardi, la dimensione più ridotta si bilancia con la struttura, che permette anche di intervenire su battaglie territoriali: “Guardiamo all’autorganizzazione per spalare il fango dopo l’alluvione dell’Emilia Romagna. Si cominciano a costruire quadri intermedi di movimento che sono cellule di strutturazione politica che poi dovesse tornare un movimento di massa potrebbero intervenire”. Da questa prospettiva le diverse “sigle” di questo ambientalismo politico trovano un fondo comune: “Non percepisco nelle assemblee dissapori tra militanti di diverse organizzazioni” sono i repertori di azione che fanno la differenza. sembrava abbastanza limitante che il repertorio d’azione definisse la propria militanza”. Uno degli elementi di questa comunanza sarebbe la “temporalità paradossale della giustizia climatica”. Tutti i movimenti, con accenti diversi, condividono la stessa ambiguità: da un lato dicono che “non c’è più tempo”, dall’altro che “siamo ancora in tempo se cambiamo registro”.

Radicamento territoriale – In questa nuova configurazione, secondo il co-autore di L’era della giustizia climatica, ha consentito ai Fridays e agli altri di entrare in connessione con i movimenti politici pre-esistenti in Italia, quelli appartenenti all’area della sinistra “radicale” da Gkn ai No Tav, e anche parzialmente con i partiti. “Pensiamo che a Torino i Fridays For Future inizialmente era rimasto agnostico sulla Torino-Lione, la convergenza si è creata dopo lo sciopero per il clima del 27 settembre 2019 quando i No Tav hanno sfilato insieme ai Fridays. Questo fa sì, assicura Leonardi, che anche nelle proteste ambientali territoriali si ritrovino questi gruppi di giovani: “È la dinamica europea che spinge verso il mutuo coinvolgimento. Fridays e XR hanno radicamento territoriale perché fanno lotte locali. Per fare due esempi recenti, sono nel movimento contro l’allargamento dell’aeroporto No cargo a Parma”, o a Pisa contro l’allargamento della base militare di Coltano o ancora a Messina contro il Ponte sullo stretto. Oggi, “il fulcro dell’attenzione è diventato il rapporto con il mondo sindacale, che è ancora in essere come problema. Ossia come unire le vertenze sindacali locali alle vertenze ambientali, sul modello dell’alleanza con il collettivo di fabbrica Gkn”.

Il rapporto con la politica – E in divenire è anche il rapporto con le forze politiche e i partiti, tema ostico anche per i movimenti sociali classici. In Italia, secondo Leonardi, si registra un certo “vantaggio” dei movimenti ambientalisti rispetto ai colleghi europei. Nel nostro Paese, infatti, le forze della sinistra tradizionale hanno incorporato alcune istanze ambientali già dagli anni 80. Il ricercatore ricorda che secondo Alberto Magnaghi, morto da poco, La prima rivista ambientalista italiana è Lavoro zero e la facevano gli operai a porto marghera. “L’ambientalismo italiano ha da sempre una forte radice operaia”. Questo oggi fa sì che “a differenza di quanto accade in Germania dove il partito verde tedesco dovrà affrontare seriamente la crisi della prospettiva dell’ambientalismo di mercato impersonato da Ursula von der Leyen, qui a sinistra tutte le formazioni, dal Partito democratico al Movimento 5 Stelle a Potere al Popolo, sono meno in imbarazzo a parlare di giustizia climatica. Il M5S in particolare e una parte del Pd hanno cominciato a sostenere l’ipotesi tassare le grandi compagnie che sono all’origine del problema climatico”.

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