Il salario minimo non serve a niente. Almeno così la pensano Brunetta e la maggioranza del Cnel (Cisl compresa), “sorprendentemente” in linea col governo Meloni. Che si corra a comunicarlo a vigilanti, addetti alla guardiania con paghe da 5€ l’ora, addette alle pulizie che ne guadagnano 6,5€, commesse, cameriere, braccianti, tutti abbondantemente sotto i 10€ l’ora. Che se ne facciano una ragione perché l’ha detto Brunetta: i loro stipendi sono più che sufficienti!

A esser pignoli, Brunetta dice che, se anche dovesse esserci un salario minimo, dovrebbe essere di 6,85€ o 7,10€ l’ora. Così viene fuori dai calcoli di un organo, il Cnel, che quasi quasi ti vien voglia di dare ragione a Renzi e di dire che davvero andrebbe abolito. I numeri dati da Brunetta significherebbero, infatti, l’ufficializzazione che i salari da fame con cui oggi vengono retribuiti circa 5 milioni di lavoratori e lavoratrici vanno bene. Brunetta dice che la stragrande maggioranza dei dipendenti (il 92%) è già oggi coperta da un contratto nazionale per cui un salario minimo non serve. Brunetta dice anche che i contratti pirata non sono un problema. Perché, secondo i calcoli del Cnel, rappresentano solo lo 0,4% del totale.

Peccato che Brunetta consideri “pirata” solo i contratti firmati da sindacati non rappresentati al Cnel. Un totale di 353 contratti che però coprono solo 54.220 lavoratori. Brunetta non tiene invece in conto gli accordi siglati da Cisal e Confsal: 270 contratti nel complesso a copertura di più di 1,2 milioni di lavoratori e lavoratrici. Lo vada a chiedere a vigilanti e addetti alla guardiania cosa ne pensano del contratto di categoria su cui ha apposto la sua firma la Cisal: se già col ccnl firmato da Cgil, Cisl e Uil le paghe sono da fame, con quello Cisal si scava e si va sotto terra: i lavoratori perdono la quattordicesima, lo straordinario gli viene pagato la metà e la paga base è ben più bassa.

Ma c’è un altro elemento che emerge dal metodo di calcolo usato dal Cnel e che è stato messo ancora poco in evidenza. E che permette di dire che Brunetta fa riferimento a dati falsati. Il Cnel, infatti, utilizza quelli Uniemens. Funziona grosso modo così: quando le imprese comunicano all’Inps i dati per pagare i contributi ai dipendenti lo fanno sulla base del contratto di riferimento del settore e non di quello realmente applicato. Per capirci: Fiat-Stellantis dall’epoca Marchionne ha smesso di applicare ai propri dipendenti il ccnl metalmeccanici, avendo siglato, con un accordo separato, il famoso contratto aziendale Fiat. Tuttavia, quando comunica i contributi a Inps fa riferimento al ccnl metalmeccanici.

Risultato? Secondo i dati Uniemens gli 86mila dipendenti Stellantis risultano assunti con il ccnl metalmeccanici firmato da Cgil, Cisl e Uil. Il contratto aziendale di Stellantis, per contro, risulta coprire zero lavoratori.

Brunetta e il Cnel non vogliono sentire ragioni. Ripetono che il vero problema non risiede nei salari da fame, bensì nelle poche ore lavorate per addetto. Magari perché sei assunto part-time. O addirittura perché non risulti in alcuna statistica, perché “assunto” in nero.

Brunetta dice due cose vere e una falsa.

Partiamo dall’ultima: i salari da fame sono un grosso problema, altro che. Basta guardare i ccnl Vigilanza e Servizi Fiduciari, Multiservizi, Turismo, Commercio, per rendersi conto che anche gli accordi firmati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative troppo spesso prevedono paghe che non ti fanno uscire dalla povertà. Anche laddove sei assunto con regolare full time da 40 ore a settimana. Perché se ogni ora del tuo sudore è retribuita 5€ l’ora sarai sempre un “working poor”. O, per dirla facile, fai la fame.

Ma Brunetta e il Cnel, nel tentativo di sviare l’attenzione dal salario minimo, dicono anche due cose vere. Innanzitutto che la precarietà impedisce di arrivare a un salario dignitoso. Se lavori tre mesi all’anno perché non ti viene rinnovato il contratto; o se lavori 10 ore a settimana, difficilmente arriveresti a fine mese/fine anno, anche laddove la paga oraria fosse di 10€ l’ora. Da chi viene questa critica della precarietà? Da quel Brunetta che è stato uno dei principali artefici della stagione italiana di precarizzazione del mondo del lavoro, cominciata col pacchetto Treu (1996) e non ancora terminata.

La seconda verità riconosciuta da Brunetta è relativa al lavoro irregolare, vera piaga italiana. Come si fa non essere d’accordo quando si stima che circa 3 milioni di persone lavorino senza contratto (nella stragrande maggioranza dei casi in qualità di lavoratori dipendenti e non di autonomi – il famoso idraulico evasore)?

Come si affrontano questi problemi?

Brunetta dice che occorre rafforzare la contrattazione – che però già copre la maggioranza dei dipendenti, soprattutto per ciò che attiene la produttività.

Il Cnel, insomma, consiglia di dare più spazio alla parte variabile del salario – quella che c’è quando le cose vanno bene, ma rischia di ridursi all’osso quando si inverte la tendenza. E la parte fissa della retribuzione? Quella non va toccata. Perché nel progetto di Brunetta – che in questo è perfetto rappresentante dell’ideologia dominante – bisogna restringerla al massimo.

Quello che serve davvero non emerge dalle parole di Brunetta e del Cnel: innanzitutto un salario minimo di 10€ l’ora (qui la proposta di Legge di Iniziativa Popolare di Unione Popolare), agganciati all’inflazione e pagati per intero dalle aziende, per contrastare la paghe da fame previste da troppi contratti. Se la precarietà è un problema serve allora una lotta senza quartiere per contrastarla: a partire dall’abolizione del Jobs Act, creatura del Pd, degli stage extracurriculari e facendo in modo che i contratti a termine possano essere utilizzati solo per specifiche fattispecie, come previsto dalla riforma del lavoro di Yolanda Dìaz in Spagna.

Infine, dichiarare “guerra” al lavoro irregolare. Che si fa sostenendo e non reprimendo i lavoratori delle cooperative in appalto della logistica che denunciano le false buste paga, gli orari di lavoro illegali cui sono costretti. Questo è il cambio di passo necessario, cui va accompagnata l’assunzione di almeno 10mila ispettori del lavoro, perché senza controlli non c’è alcun deterrente per le imprese truffaldine.

Il salario minimo è quindi condizione necessaria ma non sufficiente. Per restituire soldi e potere a lavoratori e lavoratrici serve un piano complessivo. Che però non strapperemo se non dando battaglia, mobilitandoci, organizzandoci.

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