Uno degli aspetti più rilevanti del ciclone che si sta abbattendo sul calcio italiano – l’ennesimo – legato alle scommesse è l’età dei coinvolti. I primi quattro nomi emersi in queste ore sono un 1999 (Nicolò Zaniolo), un 2000 (Sandro Tonali), un 2001 (Nicolò Fagioli), un 2002 (Nicola Zalewski, al momento non indagato ma citato da Fabrizio Corona). Giovani, e il fatto che sono affermati e benestanti non è un dettaglio secondario: la bestia dell’azzardo, legale o illegale, prescinde evidentemente dallo status sociale e dal conto in banca. Siamo di fronte a un problema trasversale e, probabilmente, generazionale.
La ludopatia viene definita “dipendenza senza droghe”: studi recenti dimostrano come sia un fenomeno sempre più diffuso tra i giovani. Secondo una ricerca compiuta dall’Istituto superiore di sanità nel 2018, la questione riguarda un terzo degli uomini adulti, con la fascia tra i 19 e i 26 indicata come la più vulnerabile. I dati del report parlano di un milione e mezzo di giocatori problematici e di un giro d’affari da oltre 110 miliardi: Italia terzo paese al mondo dopo Cina e India. In cinque anni, le cifre saranno sicuramente cambiate, ma resta il problema di base: la ludopatia nel nostro paese è diffusa. Ha ragione il presidente federale Gabriele Gravina quando dice “è una piaga sociale che corrode dell’interno”, ma sbaglia quando afferma che “non è un problema del calcio”. È “anche” un problema del calcio, considerati i numeri che stanno emergendo e il loro status. Professionisti che guadagnano milioni di euro e, scommettendo, mettono in gioco qualcosa di più importante: le loro carriere. Oltre alla faccia, naturalmente.
In questa fase iniziale della nuova Scommessopoli, siamo di fronte a calciatori della nazionale. Non si tratta di scommettitori che cercano la puntata della vita, ma persone che, nel gioco d’azzardo, sono alla ricerca di qualcosa che va ben oltre il denaro. Quello che accomuna i giovani calciatori con loro coetanei del mondo esterno è sicuramente l’accesso alle piattaforme di gioco, legali e non. L’era dei computer e dei telefonini ha reso praticabile la scommessa in qualsiasi situazione e con estrema facilità. Si è persino favoleggiato, ma la cosa pare rientrata, che qualcuno dei coinvolti avrebbe puntato spaparanzato in panchina, mentre era in corso la partita della sua squadra.
Questa vicenda ha turbato la nazionale alla vigilia delle gare contro Malta a Bari e contro l’Inghilterra a Wembley. Vengono in mente le dichiarazioni di Luciano Spalletti a inizio settimana: “Non voglio vedere chi ondeggia per Coverciano con le cuffie nelle orecchie come un ebete”. Detto che il ct è stato netto nella sua posizione sulla questione (“siamo vicini umanamente a Zaniolo e Tonali, ma se hanno sbagliato, è giusto che paghino”), la storia delle cuffie è uno spunto di riflessione. La tendenza all’isolamento, alla chiusura rispetto all’esterno, salvo poi invece comunicare via telefono o via computer, è diffusa nel mondo del calcio. Se Spalletti ha fatto quel richiamo, è il segno che quest’atteggiamento nasconde qualcosa di più profondo e forse anche di inquietante.
Il calcio non ha scoperto la ludopatia oggi. Ci sono carriere importanti del passato rovinate da questa dipendenza. Il portiere inglese Peter Shilton, quello che non ha mai perdonato Diego Armando Maradona per la “mano de Dios”, sperperò i suoi guadagni per le scommesse: fu costretto a giocare fino a 48 anni per ripagare i debiti. Rivelò un giorno di aver superato la ludopatia grazie al sostegno della moglie. Paul Merson, ex difensore dell’Arsenal, in un’intervista rilasciata al Guardian nel 2021, raccontò: “Il gioco d’azzardo è una dipendenza orribile e ha rovinato trentasei anni della mia vita. La prima volta ero sedicenne e mi sembrò di salire su un’astronave. Mi bruciai il primo stipendio da giocatore. Tornai a casa e dissi a mia madre che mi avevano derubato. Tutti i ludopatici sono bugiardi. Ho avuto problemi anche di alcol e cocaina, ma l’azzardo è stato la dipendenza peggiore. Le società di scommesse hanno enormi responsabilità e per il mondo del calcio, a cominciare dai giocatori, non cadere nella trappola è difficilissimo”.
Perché poi c’è questo problema di fondo: negli ultimi vent’anni il business delle scommesse si è diffuso in modo estremo, raggiungendo un giro d’affari spaventoso. I giovani si ritrovano a fare i conti con questo scenario. Negarlo, o nasconderlo, è da ipocriti.