di Mauro D’Aveni

Basterebbe, a risolvere moltissimi problemi di geopolitica e quotidianità, mettersi semplicemente nei panni degli altri e domandarsi: cosa avremmo fatto, noi, al posto loro? “Prima di giudicare qualcuno, cammina per tre lune nei suoi mocassini”: gli amerindi ben sapevano che la soluzione era d’infilarsi le scarpe altrui e accompagnarli per un po’ lungo il cammino. Purtroppo, per loro e per noi, quest’atavica saggezza è stata spazzata via dalle armi della modernità, che da tempo ha creato un borsino della vita umana, dove l’unica cosa certa è che uno non vale uno.

Quanto spazio abbiamo dedicato, nella nostra stampa e nei nostri pensieri, alla tragedia di Derna, coi suoi 20.000 morti e centinaia di migliaia di sfollati, roba che i 1.910 morti del Vajont paiono un’inezia? Zero. Del resto non c’erano vittime statunitensi, inglesi, francesi, italiane…

Decenni di pensiero binario – vero/falso, giusto/sbagliato, buono/cattivo – e di cultura mercantile, competitività ad ogni costo e mantra a ricordarci che l’unica cosa che conta è vincere, hanno ridotto a normalità il borsino di cui sopra e, poiché ogni cosa ha un prezzo, pure la nostra vita deve averne uno. Ce lo ricordano le compagnie assicurative. Se un mio caro muore a causa d’un incidente, posso chiedere al responsabile un risarcimento per danno patrimoniale da lucro cessante: termine giuridico terrificate, dal punto di vista degli affetti, illuminante, nell’ottica della vita come pura merce e della morte come furto di tale merce. Il risarcimento sarà tanto più elevato quanto maggiore era il reddito del defunto, perché le vite hanno valori economici diversi e neppure da morti diventiamo tutti uguali.

Se questo è il mondo che abbiamo orgogliosamente creato, almeno evitiamo, cortesemente, l’ipocrisia di menzionare diritti umani e sacralità della vita.

Veniamo al casus belli più attuale. La striscia di Gaza ha una superficie pari al doppio di quella del Comune di Torino e ospita tutti gli abitanti, più di due milioni, della sua Città Metropolitana, con la differenza che a Gaza l’età media non arriva ai 18 anni, nel torinese sfiora i 48. Ora, immaginiamo che i decisori dei destini del mondo – cui ovviamente non apparteniamo – stabiliscano che l’intero Piemonte debba andare ad un popolo che ha bisogno di crearsi un proprio Stato e che il nuovo popolo ben presto ci confini in una sorta di città prigione. Viene costruita una barriera invalicabile, che corre lungo l’asse sinistro del Po, risale a nord lungo la Stura, a sud lungo il Sangone e prosegue a semicerchio congiungendo Borgaretto ad Altessano. In quel perimetro dobbiamo viverci noi, col poco che lì resta, totalmente dipendenti da chi ci ha rinchiusi.

A Gaza l’attuale barriera è stata riedificata nel 2001, per cui la vita dei ventenni di oggi si è consumata sempre e solo in quel recinto e quindi che tipo di futuro pensate possano immaginarsi? Come pensate che possano crescere lì dentro i ragazzi? Come pensate che non possano odiare l’omologa gioventù che, appena oltre quel muro, vedono – perché iPhone e social arrivano pure lì – condurre una vita diametralmente opposta alla loro? E un ventenne israeliano come può vivere tranquillamente la sua vita sapendo che, a un chilometro da casa sua, dietro quelle barriere, vivono dei coetanei, che avrebbero come lui il diritto di divertirsi e progettare un futuro? E un vecchio israelita, che ha vissuto le persecuzioni razziali e la resistenza al nazifascismo, come può non inorridire di fronte a un termine come rappresaglia? E se ha vissuto in qualche ghetto come può sopportare l’idea di privare di acqua, luce e gas due milioni di persone in gran parte bambini?

I prossimi mesi ci diranno qual è l’ultima quotazione dei palestinesi al borsino della vita umana, ovvero quanti ne devono morire prima che cessi la rappresaglia e che qualcuno decida che la risposta militare è stata sufficientemente proporzionata al danno subito. E allora sapremo se dieci per uno sono stati sufficienti.

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