La notizia del Nobel per l’economia assegnato a Claudia Goldin deve avere una valenza positiva e deve spingere tutti noi ad affrontare in modo concreto il tema del gender gap, cui avevo dedicato tempo fa un post, segnalando la necessità di intervenire in tempi rapidi.
Cosa ha permesso (e, quindi, può permettere) una crescita della parità di genere?
In uno dei suoi recenti paper, Goldin affronta il tema relativo a come, quando e come le donne statunitensi hanno ottenuto il riconoscimento di importanti diritti di parità con gli uomini. Con un’interessante analisi storica, l’autrice individua 155 momenti fondamentali della lotta per la parità, registrati tra il 1905 e il 2023. Il problema, secondo Goldin, è dato dal fatto che una parte significativa di tali eventi (pari al 45%) si è concretizzata tra il 1963 e il 1973, con un rapido rallentamento negli anni successivi.
Perché le donne hanno raggiunto obiettivi importanti in quel decennio?
Secondo la tesi di Goldin, le donne hanno vinto quando, grazie alla coesione e alla forza del gruppo creatosi intorno ad alcune tematiche di genere, sono riuscite a far comprendere ai politici l’importanza del loro numero e che il loro consenso sarebbe stato determinante e dato a quei candidati che avrebbero dimostrato sensibilità verso le loro rivendicazioni. Il problema, sempre secondo Goldin, è sorto nel momento in cui, dopo le molte conquiste ottenute, le donne hanno abbandonato il movimento e la coesione del gruppo. Ciò che, quindi, sembra suggerire lo studio è che il cammino verso nuove conquiste per una crescente parità di genere passa attraverso l’esistenza di un movimento coeso che faccia capire come la propria preferenza politica verrà data a chi manifesta sensibilità per le tematiche di genere, a prescindere dall’orientamento politico.
La situazione italiana
In Italia quando si parla di parità di genere ci si riferisce principalmente alla minor presenza del personale femminile nel mondo del lavoro e alla sua scarsa presenza nei ruoli apicali (di qui le cosiddette “quote rosa”). Tutto ciò nonostante sia da molto tempo in vigore nel nostro Paese il Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna (D.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, preceduto dalla L. 903/1977 e dalla L. 125/1991), che vieta discriminazioni nell’accesso al lavoro e nello svolgimento del rapporto di lavoro.
Se, infatti, guardiamo ai numeri (i dati Istat), pur avendo il mercato del lavoro italiano registrato nel 2022 una crescita positiva del numero degli occupati (+2,4%), con un conseguente tasso di occupazione al 60,1% (+1,9%), il tasso di occupazione femminile (che già sconta un certo ritardo) non cresce con la stessa velocità di quello maschile, registrando una crescita del +1,7% del personale femminile contro un +2,1% di quello maschile. Così si accrescono ancora di più le già esistenti distanze tra i generi.
Secondo il Global Gender Gap Index, che misura i divari di genere in diversi campi (quali la partecipazione economica), l’Italia si colloca al 63esimo posto su 146 Paesi monitorati, registrando un punteggio di 0,720, dove lo zero rappresenta l’assenza di parità e 1 la totale parità. In Europa siamo al 25esimo posto su 35 Paesi, dietro Spagna (17), Francia (15) e Germania (10). La scarsa presenza di personale femminile in ruoli apicali dimostra come la disparità di genere si realizzi non solo nell’accesso al lavoro, ma anche nella carriera e, quindi, in quella retributiva. Proprio per questo, secondo la ricerca realizzata da Borsa Italiana nell’ambito dell’Italian Sustainability Week 2021, la disparità salariale di genere rappresenta uno dei temi centrali e prioritari degli obiettivi ESG italiani.
Facendo poi una verifica sul Gender Equality Index, risulta che una lavoratrice italiana lavora in media 10 anni in meno rispetto ad un uomo e guadagna il 43% in meno di un uomo, con evidenti effetti negativi dal punto di vista pensionistico, visto che la pensione è determinata sulla base dei contributi versati, che sono calcolati sulla base della retribuzione.
In Svezia (patria del Nobel) la differenza per la vita lavorativa è di soli due anni (rispetto ai 10 nostri) e il gap remunerativo vede il personale femminile guadagnare il 23,8% in meno del personale maschile, contro il 43% nostro.
Dalla sostenibilità enunciata ad un passo verso la sua realizzazione (almeno parziale)?
Come si possono contrastare questi dati deprimenti? Una strada è quella suggerita da Goldin: dovremo però attendere tempi lunghi, perché una presa di consapevolezza da parte dell’elettorato femminile della propria importanza e della propria capacità di influenzare le scelte politiche di Governo e Parlamento non è certamente qualcosa che si realizza velocemente, soprattutto quando manca una vera guida.
Una seconda via potrebbe essere quella di provare a sfruttare il Pnrr (ancora lui!), che stanzia 19,81 miliardi di euro per lo sviluppo di politiche di inclusione e coesione sociale, di cui 6,66 miliardi di euro destinati allo sviluppo di una certificazione della parità di genere, basata sulle linee guida UNI (UNI/PdR 125:2022). Si tratta di un percorso volto a misurare alcuni obiettivi di parità, che devono contraddistinguere un’organizzazione inclusiva e rispettosa della parità di genere.
Perché un datore di lavoro dovrebbe affrontare il percorso per la certificazione?
Accanto ad obiettivi etici e di brand reputation, esistono alcuni vantaggi di natura economica. Infatti, al fine di promuovere l’adozione della certificazione della parità di genere da parte delle imprese, sono previsti un esonero dal versamento di una percentuale dei contributi previdenziali complessivi a carico del datore di lavoro; un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti; una riduzione del 30% della garanzia fideiussoria per la partecipazione a gare e appalti pubblici.
Si tratta di un approccio per rendere appetibile un percorso (perché di questo si tratta e non di una certificazione statica) verso un progresso, qual è la riduzione del gender gap, confidando non solo nella sensibilità al tema da parte dei datori di lavoro, ma anche nel riconoscere alle imprese virtuose un premio. Cercando una sintesi tra il primo e il secondo approccio, questo dovrebbe essere un tema di rivendicazione sindacale.