A colpire della vicenda riguardante la censura di Adania Shibli – ma anche di Patrick Zaki – da parte della Fiera del libro di Francoforte è il silenzio tombale di scrittori e scrittrici italiani: quelli che si professano classe intellettuale. La verità è ben altra: né a loro, né alla maggior parte delle case editrici italiane, specialmente le grandi realtà, interessano le ingiustizie, siano esse contro un popolo o rivolte verso qualcuno che dovrebbero considerare collega, come la Shibli, nonostante qualsiasi distanza geografica o linguistica.
Questa accusa va fatta perché gli scrittori e scrittrici italiani, quelli pubblicati da grandi editori, oggi sembrano vivere nel completo disinteresse di quello che accade intorno a loro. Non si sono alzate voci dei grandi nomi, di quelle che riterremmo autorevoli dato il numero di follower. La motivazione può essere quella del non voler dispiacere il proprio editore; del timore di perder follower; dell’ignoranza sull’argomento o, molto più banalmente, il completo disinteresse per le cose che non siano frivole.
Sono ben lontani i tempi in cui si vedeva Alberto Moravia discutere con Sanguineti o Pasolini sui problemi del mondo, seduti intorno ad un tavolo in prima serata tv. Negli anni Settanta, gli autori punto di riferimento a destra e sinistra erano ben chiari e, per merito loro, le guerre, come quella in Vietnam – pensiamo a Terzani – arrivavano al pubblico che poteva prendere posizione. Il lettore aveva idea di quello che avveniva o, ancora meglio, poteva davvero schierarsi, perché l’intellettuale gli forniva un punto di vista. Oggi siamo abituati a scrittori e scrittrici che ci parlano di divorzio; del trash televisivo; a farla da padrone sono i romanzi rosa che vanno in vetta alle classifiche e, più in generale, sembra esserci molta narrativa ma manca totalmente il peso della letteratura.
La Palestina, così come è stata la Siria, non può che finir abbandonata insieme a quella parte di Israele che cerca una soluzione. E quando un loro scrittore – in questo caso la Shibli – pubblicato in Italia, viene censurato, quelli che dovrebbero essere i suoi colleghi nostrani decidono di interessarsi solo al libro appena uscito dell’amico.
E’ giunto il momento di uscire dalla libreria e di portare scrittori e scrittrici sul campo, sia esso un carcere o un campo profughi, e far riscoprire uno dei ruoli che la cultura deve avere: quello di resistenza all’ingiustizia.