Pur non essendo un esperto di Medio Oriente, bensì un cultore dell’antropologia politica e dei suoi modelli mentali, nonché delle relative modalità comunicative, vorrei soffermarmi su un aspetto rimasto indebitamente trascurato in questa più recente fase del conflitto tra lo Stato di Israele e i palestinesi, che ormai si avvia a diventare secolare: l’intervista – apparsa su le Figaro il 9 ottobre – del contrammiraglio Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti israeliani; spiazzante già dal titolo “Netanyahu è colpevole: Hamas armata da Tel Aviv”. In cui si legge che “il governo israeliano ha fatto di tutto perché Fatah e l’Autorità palestinese non fossero più dei partner, ha dato il potere ad Hamas”.

E perché Benjamin Netanyahu si sarebbe comportato in questa maniera apparentemente insensata? Per una ragione semplicissima: emarginare l’ANP, il partito trattativista di Abu Mazen, al fine di favorire l’ascesa di organizzazioni terroristiche, a Gaza e nella diaspora palestinese; per lo speculare consolidamento delle posizioni oltranziste nella Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, che assicurano il salvataggio della poltrona a un politico di lunghissimo corso, palesemente corrotto e screditato, quale l’attuale premier.

Del resto, una tattica costante fin dagli albori di Israele, seppure saltuariamente interrotta da leader “realisti” (da Begin a Rabin, a Sharon): tutelare il proprio profilo di sentinella dell’Occidente impedendo che venga disinnescata la polveriera mediorientale, con i relativi benefici materiali e politici che gli derivano.

Dunque, Netanyahu come l’icona ipertrofica del tipo umano venuto a imporsi nei lunghi decenni dell’oscurantismo NeoCon e della mercificazione NeoLib, in cui la sfera pubblica è diventata appannaggio del più spregiudicato carrierismo privo di valori, obnubilato dal potere per il potere: il cinismo del giocare sulla pelle dei propri follower, la spregiudicatezza ben oltre la soglia dell’azzardo nel promuovere i propri interessi. Un’evoluzione che ha stravolto l’intero campo della rappresentanza democratica. Sicché – ormai – suonano grottesche le rappresentazioni idilliache delle condizioni sistemiche in cui ci ritroveremmo. Sicché la nostra parte sarebbe quella buona e le altre cattive. Le scemenze consolatorie che – tanto per dare loro un volto – ripete, a uso e consumo della maggioranza silenziosa e di chi intende bersela, un cultore dell’ovvio in postura British quale l’abitante lumbard del luogo comune Beppe Severgnini; portavoce ideale del sentire corrente nei bar di Crema e dintorni.

Quello che sbraita – a caschetto biancocrinito sguainato – “la democrazia è buona, l’autocrazia cattiva”. Ah sì? E la democrazia israeliana – sotto sequestro dei maneggi e dei ricatti del suo inschiodabile primo ministro (e dei fondamentalisti religiosi suoi compari) – non inibisce da un bel po’ la libera espressione del volere popolare? Ma – si dice – costoro sono stati votati! Come se l’imposizione del potere autocratico avvenisse soltanto attraverso forme di coercizione fisica diretta; e non inducendo comportamenti elettorali mediante manipolazioni, menzogne, disinformazione, campagne d’immagine mendaci; il ricorso sistematico alle tecniche di controllo subliminale che trasformano il corpo elettorale in un gregge passivizzato. Modalità cui la tecnologia informatica, insieme all’evoluzione delle neuroscienze, ha fornito l’armamentario decisivo.

Del resto sono passati quasi venticinque anni da quando il politologo inglese Colin Crouch descrisse la nostra condizione come “postdemocratica”; e le elezioni come “gare tra marchi” di partiti ormai omologhi. Cinque anni prima il filosofo politico francese Bernard Manin aveva denunciato la cosiddetta “democrazia del pubblico”, in cui i cittadini si riducono a “spettatori di una scena politica sempre più spettacolarizzata”. E – con il duo Crouch/Manin – ci troviamo davanti a distinti accademici, mica pericolosi sovversivi alla Che Guevara. Eppure, nell’alternanza di massacri, in cui una volta a subire sono gli israeliani e l’altra i palestinesi, il problema è solo quello di attribuire a chi la patente di vittima; per – poi – certificarsi buoni sulla base di un palese calcolo delle convenienze.

Questo manicheismo da strapazzo che cerca di stare dalla parte “giusta”, inginocchiato ai piedi dei presunti dominatori del mondo; pronti a beneficare i cortigiani e a sostenere qualunque canaglia funzionale ai loro interessi. Come disse un segretario di Stato stelle-e-strisce di papà Doc Duvalier, tiranno di Haiti: “è un porco ma è il mio porco”. Piuttosto il rischio per questa servitù volontaria è quello di sbagliare padrone, nella Guerra Fredda in corso. Avviata a diventare Calda, grondante sangue.

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