Scrivo questo post il giorno dopo lo svolgimento del referendum in Australia che mirava a introdurre nella Costituzione il diritto ad una voce per le popolazioni indigene (il referendum è stato appunto denominato “The Voice”). L’intento era quello di stabilire una commissione formata da persone indigene che sarebbe stata interrogata dal governo (fornendo pareri non vincolanti, ma solamente consultivi) sulle questioni relative alle loro comunità. Uso il condizionale passato in quanto gli australiani hanno mandato un segnale forte e chiaro al governo laburista che aveva indetto e promosso il referendum, votando in larga maggioranza (60%) contro tale proposta. Il referendum non è passato ed oggi si apre una nuova fase di tentativo di ricucitura sociale, dal momento che – come potete ben immaginare – tale risultato significa un colpo al cuore mortale per tutti coloro che lottano per la promozione dei diritti indigeni.
Il voto è stato piuttosto simile in tutti gli Stati australiani, seppure con alcune differenze: ad esempio, nello Stato del Victoria (dove si trova Melbourne) che è considerato alquanto progressista, il No ha vinto 55-45, mentre nel Queensland (più rurale e conservatore) il No ha sfiorato il 70%. Ma il No ha prevalso senza eccezioni in ogni singolo Stato.
Al di là delle opinioni personali e di come io abbia votato, quello che mi interessa approfondire qui è una componente del dibattito (piuttosto teso ed a volte anche violento) che ha accompagnato la campagna elettorale: quello della rappresentanza democratica e del funzionamento delle istituzioni legislative e governative su cui si basano le democrazie occidentali.
Il fulcro della questione è che le popolazioni indigene (che rappresentano meno del 4% della popolazione australiana) reclamano il diritto a questa commissione consultiva per fare in modo che le loro istanze siano rappresentate ed ascoltate nelle stanze del potere. Ed ovviamente tale richiesta viene sostanziata, in maniera legittima, dall’atroce storia che hanno dovuto subire a causa della colonizzazione britannica, che ha invaso le loro terre e spazzato via decine di millenni di cultura e milioni di persone.
Ma torniamo al nocciolo della questione. In Australia vi sono altri gruppi (penso alla comunità LGBTIQ+ ed agli immigrati, per citarne due) che rappresentano un parte ben più numerosa della popolazione, i quali potrebbero avanzare una richiesta simile per quanto concerne le decisioni che possono avere un impatto sulle loro vite. Il che significa la necessità di determinare quali classi e minoranze dovrebbero aver diritto a “corpi speciali di rappresentanza” e quali no.
Non mi interessa discernere su questo. Ciò che mi sta a cuore è una riflessione sul sistema attraverso cui i cittadini eleggono i membri del Parlamento locale e nazionale, nella convinzione che questi rappresentino tutte le istanze politiche e sociali di cui sono portatori. Questo è il fondamento del sistema parlamentare e la ragione per cui, in tutte le democrazie occidentali, andiamo a votare con regolarità.
Se come cittadini sentiamo il bisogno di chiedere la creazione di commissioni consultive extra per fornire pareri agli organi legislativi e di governo, significa che il nostro sistema inizia a presentare delle falle cui – come abbiamo imparato dal mancato successo del The Voice – non si può sopperire ponendo delle pezze temporanee, ma con una revisione più profonda dei sistemi di rappresentanza che siano al passo con i tempi moderni e l’approccio alla governance del paese, cambiato moltissimo soprattutto nelle nuove generazioni, che fanno fatica a riconoscersi in un sistema parlamentare classico con membri eletti a livello locale.
L’esperienza di The Voice, se non elaborata ed utilizzata come piattaforma per tale discussione, rischia di rimanere solamente un momento triste e divisivo in Australia ed un vulnus forse irreparabile nelle attese delle popolazioni indigene. Io spero davvero che il governo laburista sia in grado di capire la complessità del tema sollevato dal referendum, che va ben al di là dell’opinione su una questione specifica così delicata come quella di un popolo cui sono state tolte terre e diritti per 250 anni, ed avvii un processo di revisione degli attuali meccanismi di governance. Affinché perlomeno questa sconfitta possa portare dei frutti a medio e lungo termine.