Amazon ha iniziato a operare in Arabia Saudita nel 2020. Un anno dopo, in un’analisi dei rischi, ha rilevato che la situazione del lavoro, lì, era problematica.
Dunque, Amazon sapeva. Sapeva almeno parte delle cose che un rapporto di Amnesty International ha rivelato alcuni giorni fa. Del resto, i lavoratori impiegati presso i suoi magazzini di Riad e Gedda, quelle cose, le denunciavano.
Quali cose? In sintesi: lavoratori stranieri forniti da agenzie esterne privati dei salari, costretti a vivere in condizioni terribili e ostacolati nel cercare un’occupazione alternativa o nel lasciare il paese. Il rapporto si basa sulle informazioni raccolte da 22 uomini provenienti dal Nepal, assunti da due fornitori esterni di manodopera: Abdullah Fahad Al-Mutairi Support Services Co. (Al-Mutairi) e Basmah Al-Musanada Co. for Technical Support Services (Basmah).
Per ottenere lavoro presso le strutture di Amazon in Arabia Saudita, tutti salvo uno hanno raccontato di aver pagato agli agenti di reclutamento in Nepal l’equivalente di 1400 euro, talvolta chiedendo prestiti ad alto interesse. I reclutatori nepalesi, a volte in combutta con le due aziende appaltatrici in Arabia Saudita, hanno fatto credere ai lavoratori che sarebbero stati assunti direttamente da Amazon. Alcuni hanno cominciato a sospettare solo poche ore prima della partenza, ma, avendo già pagato, hanno deciso di viaggiare. Altri se ne sono resi conto solo dopo essere arrivati in Arabia Saudita.
Qui, i lavoratori sono stati alloggiati in strutture fatiscenti e sovraffollate, prive di aria condizionata e infestate da insetti. Le due aziende appaltatrici hanno frequentemente decurtato i loro salari senza fornire spiegazioni e hanno retribuito l’orario straordinario in modo inadeguato.
Nei magazzini, i lavoratori hanno riferito di essere stati costretti in modo costante a sollevare oggetti molto pesanti, a sforzarsi per raggiungere obiettivi di produttività estenuanti, a subire un monitoraggio costante e a non poter godere di adeguati momenti di riposo. Uno di loro ha raccontato di aver subito una sospetta frattura al braccio e di essere stato dichiarato inabile al lavoro per un mese da un medico. Tuttavia, poiché l’azienda appaltatrice non gli dava un’indennità da malattia, ha dovuto tornare al lavoro entro due settimane.
La maggior parte dei lavoratori ha firmato contratti di due anni con le aziende appaltatrici ma molti hanno trascorso meno di 12 mesi presso le strutture di Amazon. Quelli trovatisi senza lavoro sono finiti in alloggi ancora peggiori, senza stipendi né indennità né protezione sociale da parte dello stato saudita. Ci ha messo del suo il sistema del kafala, che già aveva colpito pesantemente i lavoratori migranti accorsi in Qatar per costruire gli stadi e le infrastrutture dei mondiali di calcio del 2022.
I lavoratori di Amazon che volevano cercare un altro lavoro non hanno potuto farlo perché il datore (ossia, le due agenzie appaltatrici) non forniva il nulla osta né tantomeno hanno potuto lasciare l’Arabia Saudita. L’agenzia Al-Mutairi ha proposto ad alcuni di loro di pagare “una multa” (meglio, una tangente) di 1200-1500 euro per tornare in patria, ma evidentemente nessuno di loro è stato in grado di farlo.
Amnesty International ha condiviso i dettagli dell’indagine con Amazon, Al-Mutairi e Basmah, così come con il governo dell’Arabia Saudita. È possibile accedere alla risposta di Amazon qui. Gli altri non hanno risposto.