L’immagine devastante della violenza e dell’orrore che si è abbattuto sul raduno dei giovani nel deserto a tre km da Gaza e che è solo una tessera dell’attacco terroristico con finalità politiche realizzato con successo da Hamas è destinata a diventare uno spartiacque tra un prima e un dopo. Ma è anche, come ha evidenziato a caldo Domenico Quirico, “un’immagine folgorante di divisione del mondo” tra il mondo che sentiamo come nostro, quello gioioso, pacifico, festoso di chi non si misura con l’esclusione e la precarietà quotidiana e quello, diviso solo da una rete, del non diritto e della disperazione in cui la vita si riduce a sopravvivenza da cui provengono gli attentatori.
Nessuna condizione di marginalizzazione e di negazione dei diritti civili come l’assoggettamento da decenni a tribunali militari e nemmeno il bilancio di 6.400 morti tra la popolazione palestinese dal 2008 ad oggi può giustificare la ferocia di Hamas che non può e non deve ovviamente essere identificata con i 2 milioni e 300mila abitanti di Gaza.
Analogamente il popolo di Israele che ha dato prova in questi ultimi mesi di una partecipazione civile e di una capacità di mobilitazione democratica a difesa dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura, di cui noi purtroppo durante il ventennio berlusconiano non siamo stati capaci, non può essere appiattito sulle responsabilità enormi del governo Netanyahu.
E d’altronde gli israeliani sono ben consapevoli essendo stati tragicamente parte lesa di quanto questo esecutivo ancora più reazionario e settario dei precedenti sia stato deleterio e rovinoso per la stessa difesa oltre che per la reputazione internazionale del paese. L’86% e cioè 4 israeliani su 5 lo ritengono responsabile per la mancata previsione e reazione al formidabile attacco di Hamas ed il 56% ritiene che dovrebbe dimettersi. Ciò che appare evidente è che “il destino i Netanyahu è segnato” sempre troppo tardi per israeliani e palestinesi.
Solo lo scorso 22 settembre riferendosi agli accordi di Abramo con Emirati, Sudan, Bahrain, ovvero per Trump la nascita di “un nuovo Medio Oriente”, li aveva decantati come “l’alba di una nuova era di pace” ignorando qualsiasi riferimento ad un trattato di pace con i palestinesi.
Di “responsabilità criminali di un governo razzista composto di ministri convinti della superiorità del sangue ebraico e che considerano Rabin, vittima dell’ultradestra, un Kapò” non ha parlato, per esempio, Patrick Zaki, bensì un inviato di guerra per 23 anni in Israele, accusato spesso dalla galassia filo-Putin di essere portavoce della Nato, come Lorenzo Cremonesi. A Tagadà del 12 ottobre ha tra l’altro ripetuto che Hamas anche se usa il terrore non è l’Isis e continuare ad affermarlo dopo aver fallito miseramente significa solo pretendere una copertura per non negoziare: se Hamas è come l’Isis, con Hamas non si tratta.
D’ altronde se “Ogni uomo di Hamas è un uomo morto” come ha tuonato Netanyhau prima dell’occupazione militare di Gaza casa per casa, deriva che la vita degli ostaggi non è al primo posto. E “più bombardano e più Hamas sarà Gaza”. Con un bilancio prevedibile di almeno 10mila morti tra la popolazione, quasi 10 volte le vittime dell’operazione “piombo fuso”, è realistico pensare che Hamas dal consenso attuale al 51% possa diventare l’unico punto di riferimento. Dopo l’ordine di abbandonare il Nord della striscia per 1,1 milioni di persone, il valico di Rafah rimane ancora chiuso e sono ancora bloccati gli aiuti umanitari. Il richiamo del Pentagono e dell’Europa (“Le democrazie forti non prendono di mira i civili”) è rimasto inascoltato
Con metodi terroristici Hamas che ora invita i palestinesi a restare per non rimanere “scoperta” sotto l’avanzata israeliana è riuscita con l’aiuto dell’Iran e con il placet di Mosca “ad impedire la creazione di un ordine regionale che prescinde dalla questione palestinese” (Vittorio Emanuele Parsi, QN del 13 ottobre), un’operazione velleitaria quanto ingiusta. Israele nel momento di massima debolezza tra tutte le opzioni ha scelto quella più distruttiva e controproducente.
I potenziali o sedicenti mediatori da Erdogan ad Al-Sisi nonché il Qatar, finanziatore di Hamas, per ora si stanno rivelando ininfluenti ad ambigui. Ma non è mancata nemmeno la disponibilità di Putin “uomo di pace” mentre il suo rappresentante alle nazioni unite liquidava come nazisti i 51 morti per l’attacco missilistico russo alla veglia funebre di Kupiansk in quanto il deceduto era un soldato ucraino. E perfino il suo pupillo tagliagole ceceno Kadyrov si è generosamente offerto per un’operazione di peacekeeping con il preciso obiettivo di “ristabilire l’ordine e affrontare chi cerca problemi”.
L’unica nazione che può avvantaggiarsi direttamente della concentrazione dell’Occidente sulla guerra già in atto in Medio Oriente è la Russia che potrebbe beneficiare di un progressivo disinteresse e disimpegno a danno dell’Ucraina nel momento in cui Kiev si trova in maggiore difficoltà. Ma non mi sembra una buona notizia. E per quanto riguarda i parallelismi piuttosto impropri tra l’attacco terroristico ad Israele e l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin forse possono ricorrere a parti invertite: i minacciosi carrarmati che entrano a Gaza mi hanno ricordato la teoria di 40 Km che marciava su Kiev e la popolazione disarmata che tentava di fermarli.
Quanto agli orrori di Hamas che “non si vedevano dall’Olocausto” mi sembra che disgraziatamente li abbiamo visti molto simili e molto di recente a Bucha, Izyum, Mariupol, solo per citare i più eclatanti, e gli autori di quei crimini oggi si propongono persino come pacificatori.