Pazza storia di noi due è un romanzo breve del livornese Carlo Banchieri che ha iniziato a scrivere questa storia perché ispirato dalla celebre Patience, canzone del 1988 dei Guns N’ Roses, un pezzo che – spiega Banchieri – ha accompagnato buona parte della sua vita. Il brano è contenuto nell’album G N’ R Lies e il testo viene solitamente interpretato come il racconto
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L’albergo era gestito da una famiglia del sud, originaria di Salerno. Parlavano a malapena l’italiano, ma avevano modi molto gentili e accomodanti. Un palazzo di tre piani, anni sessanta, molto carino visto da fuori, pitturato di fresco. Ma dalla sua stanza al secondo piano, Corrias vedeva solo il grigiore ammuffito sopra la tenda, vecchia quanto il palazzo, che copriva il portone d’ingresso.
Le pareti interne ci somigliavano e non poco, ma era molto silenzioso. Sentiva solo una tosse serpeggiante e fastidiosa addensarsi nel petto, mentre cercava di trangugiare un toast freddo, comprato la sera prima al supermercato che si trovava verso la stazione, a trecento metri da lì. Seduto sulla sedia, con i gomiti poggiati al davanzale, Corrias poteva vedere gli alberi che si aprivano sotto di lui, fino al parco. Poteva osservare la gente più assurda sulle panchine; donne in gruppo fare esercizio, corridori solitari, mamme che ricorrevano i loro figli gridando di non fare questo o quello. Un uomo passò camminando a passo spedito, perse il portafogli e si rese conto di quanto successo solamente cinquanta metri più avanti. Tornò indietro, guardandosi attorno come per essere tranquillo che nessuno ci si avventasse sopra prima che lui potesse raggiungerlo.
Nella stanza dove era morto Camus, qualcuno era tornato indietro. Lo si era capito dalle tracce lasciate sul pavimento. Una macchia di fango vicino al suo corpo. Ma aveva iniziato a piovere solo più tardi, durante la notte. Fu in quel momento, che capì. Quando qualcuno perde qualcosa a cui tiene, tornerà sempre indietro per riprenderselo. Viveva in quella città di provincia da quando era nato. Veniva da una famiglia umile, suo padre operaio di una vecchia fabbrica di tendaggi, chiusa da anni, sua madre casalinga. A quei tempi con uno stipendio una famiglia avrebbe potuto campare tranquillamente e crescere anche due figli. Aveva visto tutti i cambiamenti che si erano susseguiti negli anni. A cinquantasei anni, era convinto di conoscere tutte le dinamiche che muovevano i suoi concittadini, le loro passioni, il loro modo di pensare, le loro abitudini. In quella città si leggeva molto poco, si lavorava tanto ma con poca voglia, c’erano più ristoranti e banche che altri tipi di attività commerciali, nessuna discoteca, qualche locale che metteva musica anche a tarda sera. Molta droga in giro, ma tante brave persone. Molti furti e incidenti domestici, pochissimi omicidi. L’ultimo che aveva dovuto risolvere risaliva a dieci anni prima: un tossico aveva ucciso sua nonna che non intendeva più pagargli l’eroina.
Corrias viveva in quell’albergo da qualche mese, in attesa di una sistemazione più comoda. Spendeva un terzo del suo stipendio per quella camera, si muoveva a piedi o in bicicletta, non aveva figli, non li aveva mai voluti e per questo aveva sempre rotto qualsiasi relazione lo portasse in quella direzione. Era troppo svogliato per fare ginnastica, smettere di fumare o socializzare con gli altri, ma faceva molto, dentro la sua testa, leggendo di tutto, cercando di sostituire la parte moscia di sé con un’altra più forte e squadrata, che sapeva muoversi con più forza e velocità.
Un preside morto nel suo ufficio era una notizia che i giornali locali avevano riportato per giorni e giorni su giornali e web, inculcando nei lettori l’idea di un omicidio, anche se non c’era niente che indicava che lo fosse. Avrebbe voluto fargli il culo, solo per quello. Spazzature umane, avvoltoi che si approfittavano di ogni situazione per racimolare qualche visualizzazione in più sui loro giornali di merda.
Deglutì e gli sfuggì un colpo di tosse mentre pensava che da ragazzo avrebbe fatto qualsiasi cosa per affrontare criminali, mafiosi e violenti di ogni sorta. Non avrebbe mai immaginato di restare per tutta la vita nel posto in cui era nato, dove il delitto più efferato vedeva protagonista un tossico che rapinava un tabaccaio per pagarsi la dose. Mentre si raffigurava tutto questo, prese un pezzetto di carta dalla tasca posteriore dei jeans. Era uno scontrino di chissà quanto tempo prima. Ne ritagliò una striscia a ottenere un quadrato perfetto. Le dita affusolate si muovevano meccanicamente e in silenzio, la carta piegata più e più volte prese la forma di un piccolo uccello. Non era più il giovane utopista di un tempo, invecchiando i pensieri malinconici e il suo lavoro di routine gli prendevamo tutto il tempo.
Verso le nove nessuno lo aveva ancora chiamato, ed era strano perché di solito, se a quell’ora non si fosse ancora presentato in ufficio, qualche collega lo avrebbe contattato per sapere come mai fosse in ritardo. Si mise una giacca leggera in camoscio, sopra alla felpa nera zippata e si incamminò. La giornata era piuttosto fresca e secca, l’aria leggermente pungente. La bici era legata con un catenaccio al cartello stradale sull’angolo della strada. Decise di uscire e incamminarsi a piedi verso la stazione di Polizia. L’umore non era al massimo, così pensò che una camminata gli avrebbe fatto bene. Sempre meglio di starsene lì ad aspettare un’eventuale telefonata. Una volta in ufficio, avrebbe trovato in quell’ambiente così familiare, nei modi di fare dei suoi colleghi, qualcosa di rassicurante che lo avrebbe fatto sentire meglio. Nove e quarantacinque, orario appena scoccato sul Casio nero che portava al polso destro.
Mentre passeggiava, con le mani in tasca, il collo fermo e gli occhi che si spostavano da un lato all’altro, ecco che ebbe in anticipo la notizia che, con tutta probabilità avrebbe ricevuto poco dopo da un suo superiore. Alcune donne stavano parlando tra loro, sguaiatamente, ad alta voce. Dicevano qualcosa a proposito del cadavere di un professore, di un incidente in una scuola, un corpo senza vita ritrovato da qualche collaboratrice scolastica di loro conoscenza. Corrias sentì tutto e metabolizzò in una frazione di secondo, ma con una certa apparente noncuranza. Poco più tardi, al primo piano dell’edificio, nella stanza principale, l’ufficio della questura era caotico come al solito. Si accalcavano uomini e donne dello Stato, tra scrivanie ingrigite e scaffali stracolmi di scatole, sedie e computer, fotografie e pile di giornali anche sui termosifoni, registri con tabulati telefonici e plichi vari tenuti insieme con dei legacci.
Corrias continuava ad aprire e chiudere il fascicolo davanti a sé, come nella speranza che una volta spalancato avrebbe avuto un’illuminazione, che avrebbe trovato qualcosa di immediato e lampante a chiarire tutti i dubbi e le perplessità. Ma il fascicolo era piuttosto scarno. La descrizione di quella persona che era stata vista uscire dall’ufficio del preside ammazzato, una serie di foto segnaletiche su un uomo che nelle ultime settimane era stato visto più volte fuori dalla scuola. Poteva non esserci un collegamento, ma quando uno sbirro porta avanti un indagine, che in questo caso riguardava un presunto omicidio nella scuola, dentro a quella cartella ci finiva di tutto. E così anche le segnalazioni che erano state portate da a alcuni studenti, su un uomo che gironzolava sempre intorno ad alcuni di loro, che a volte li aveva seguiti, infastiditi in qualche modo.
Quella foto di Mauro Gilima era finita nell’ultima pagina del plico. Niente di particolarmente rilevante su di lui, né documenti, né registrazioni elettroniche. Inoltre, era una foto vecchia che ritraeva il professore fuori da un bar, insieme a suo figlio. Sembrava una di quelle foto scattate per un occasione particolare: il padre con una bella espressione sorridente, gli occhi spostati di lato che osservavano lontano dall’obiettivo, e un ragazzo di fianco a lui, stretto nelle spalle. Un ragazzo molto giovane, dal fisico atletico e con una espressione riposata e placida sul volto. Intorno a loro molti altri ragazzi. Era l’istantanea immortalata di una qualche manifestazione dell’anno precedente. Corrias spostò impercettibilmente le pupille sullo sfondo della stampa, strizzò gli occhi, oltrepassò con lentezza e attenzione il gregge dei dimostranti che agitavano striscioni, che ridevano, che parevano essere lì per qualcosa di importante. Un ragazzo e una ragazza stavano più defilati, in disparte rispetto al mucchio. Avevano lo sguardo rivolto al professore, sembravano crucciati. Era uno sguardo che si poteva leggere come di disapprovazione.
Avevano un’aria piuttosto distinta, abiti belli e di marca, aspetto pulito. Sembravano appartenere alla parte bene e facoltosa della comunità cittadina. Il figlio di Gilima aveva un aspetto più sciatto, ma il viso di un ragazzo buono. Era un bel ragazzo dai lineamenti gentili, alto e snello, capelli castano chiaro. Dalla foto si capiva molto bene che aveva non più di diciassette anni. Corrias sapeva perfettamente dell’autismo del ragazzo e non aveva studiato la materia così bene da potersene fare un’idea precisa, tuttavia se lo figurava come un ragazzino normale, ma con un modo diverso dagli altri di esprimersi. Sapeva che ci sono vari livelli, diversi gradi di autismo. Uno messo male, uno con autismo pesante, lo avrebbe riconosciuto. O almeno così pensava. Inoltre il fatto che suo padre lo portasse sempre scuola con sé, gli faceva credere che non fosse a un livello così complicato, visto che poteva stare con tutti gli altri. Gilima portava spesso il figlio a scuola, per non lasciarlo solo, e così tutti conoscevano quell’anima fragile e sapevano quanto il padre lo amasse.
Erano stati sentiti i ragazzi. Quelli della fotografia, erano stati tutti ascoltati. Volevano bene al professore, alcuni più di altri. Ma le cose erano molto cambiate da quel periodo. Corrias si diede un bel da fare per rimettere fuori tutto quanto. Aveva avuto una netta sensazione, di recente. Quella che lo portava a credere che le cose non fossero così semplici come sembravano. Tutto sembrava molto semplice, ma il suo istinto gli diceva che non era affatto così. Al fatto che Camus fosse morto accidentalmente, non aveva mai creduto. E pensare che il professor Gilima c’entrasse qualcosa, sembrava la soluzione più ovvia e scontata. Il giovane Pietro Scarfini, quella mattina gli consegnò quelle che erano il risultato del lavoro della Scientifica, ossia le foto a colori che ritraevano la morte del preside, con una lugubre attenzione ai dettagli.