Una saldatura tra Cosa nostra ed esponenti dell’eversione nera dietro alla strategia stragista. Una convergenza di interessi emersa dopo anni di depistaggi, indagini mancate e sentenze spesso contradditorie. Ed è per questo che per continuare a cercare la verità bisogna “evitare di rimettere in gioco elementi depistanti per chi vuole muovere alla ricerca della verità”. È seguendo questa linea che Salvatore Borsellino e l’avvocato Fabio Repici hanno cominciato la loro audizione davanti alla commissione Antimafia. Dopo aver audito Lucia Borsellino e suo marito Fabio Trizzino, Palazzo San Macuto ha cominciato ad ascoltare anche l’altra parte della famiglia del giudice ucciso nella strage di via d’Amelio. Un’audizione necessaria visto che, come è ormai noto, da tempo i familiari del magistrato assassinato il 19 luglio 1992 hanno posizioni molto diverse sulle causali coperte di via D’Amelio. Nella sua lunga relazione Trizzino, che come avvocato rappresenta i tre figli di Borsellino, ha indicato il rapporto del Ros su Mafia e appalti come l’unico vero movente della strage. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, però, i buchi neri sul dossier dei carabinieri sono stati ampiamente chiariti in passato. E in ogni caso Mafia e appalti non basta per giustificare l’accelerazione del piano di morte per Borsellino. Come non basta per rispondere a molte delle domande rimaste inevase sul periodo delle stragi.

Le parole di Salvatore Borsellino – È anche per questo motivo se Salvatore Borsellino ha spiegato alla commissione di avere idee diverse rispetto ai suoi nipoti. “Se da un lato ai figli di Paolo mi lega il terribile dolore per questa morte annunciata e l’insopprimibile esigenza di verità su una strage nella quale è stata stroncata la vita di loro padre e di mio fratello, da essi mi divide una posizione processuale che si è venuta a differenziare nel corso degli anni, arrivando purtroppo, con mio grande dolore, a influire anche sui rapporti personali“, ha detto il fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio. “Devo dire, da parte mia, che ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati. O meglio un magistrato e un ex magistrato, oggi senatore. Mi riferisco a Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato, ai quali mi sento di manifestare in questa sede la mia stima e la mia gratitudine per avere ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia per le quali continuo a combattere in nome di quell’agenda rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta”, ha specificato Borsellino, che ha parlato per circa un’ora, collegato da remoto con Palazzo San Macuto.

“Tinebra e Giammanco dovevano rispondere da vivi” – Borsellino ha poi spiegato di essere rimasto “perplesso per il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie Agnese”. Il riferimento è al passaggio in cui l’avvocato Trizzino interpreta molto liberamente le frasi messe a verbale da Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino, al quale il giudice aveva confidato di avere “visto la mafia in diretta” perché gli avevano detto che il generale dei carabinieri Antonio Subranni era “punciuto, cioè affiliato a Cosa nostra. Secondo Trizzino “per Borsellino il mafioso era chi glielo aveva detto”, quindi non Subranni. Interpretazione abbastanza contorta, che non convince Salvatore Borsellino. Che poi ha aggiunto: “I magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito sono Giovanni Tinebra, che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avvallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e Pietro Giammanco, che ha ostacolato in ogni modo sia Falcone che Paolo, fino a concedere a quest’ultimo la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di via D’Amelio. Questi magistrati avrebbero dovuto rispondere del loro operato finché erano in vita”. Il riferimento è per l’ex procuratore di Caltanissetta, morto nel 2017, e per l’ex procuratore capo di Palermo, deceduto l’anno dopo: entrambi non sono mai finiti sotto inchiesta.

“Anni di depistaggi, mai indagato davvero sull’agenda rossa” – Fratello minore di Paolo Borsellino, Salvatore ha lasciato Palermo per andare a vivere a Milano alla fine degli anni ’60. Nel 2008 ha fondato le Agende rosse, un movimento creato per cercare la verità sulla strage di via d’Amelio. “Questi sono stati anni di depistaggi, mancate indagini, sentenze contraddittorie. Sono stati assicurati alla giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo Borsellino ma ciò non è avvenuto per coloro che hanno agito nell’ombra volendo la sua morte, non sono stati messi in luce i motivi dell’accelerazione di questa strage che non sarebbe avvenuta solo 57 giorni dopo Capaci se fosse stata attuata solo dall’organizzazione mafiosa”, ha detto in apertura della sua audizione. “Sulla sparizione dell’agenda rossa non si è mai davvero indagato, non c’è mai stato un vero processo. Tranne quello in cui, in fase di udienza preliminare, quindi senza alcun dibattimento, è stato assolto il capitano Arcangioli, ripreso e fotografato mentre si allontana dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, portando in mano la borsa di Paolo in cui era contenuta l’agenda. Ma a chi è stata consegnata quella borsa?”, ha detto Borsellino. Ricordando poi il lavoro di Angelo Garavaglia Fragetta, tra i fondatori delle Agende rosse, che ha messo insieme tutti i frame di via d’Amelio successivi alla strage, realizzando un filmato che mostra in diretta i movimenti della valigetta di Borsellino. Secondo il fratello del magistrato “è dall’agenda rossa, la scatola nera della strage di via d’Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare alla verità. Ripartire dal furto di quell’agenda compiuto, ne sono certo, da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello: non sto parlando della mafia ma di pezzi deviati dello Stato. È da questo che si dovrebbe ripartire, non dal dossier mafia e appalti, che può essere considerato una concausa, ma non è sicuramente la prima causa dell’accelerazione di una strage che a quel punto non poteva più essere rimandata”. Secondo Borsellino in “pochi, troppo pochi, vogliono verità e giustizia in questo Paese“.

Il discorso di Casa Professa – Una chiave da seguire per cercare la verità è ragionare sulla parole pronunciate da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo il 25 giugno del 1992. A proposito della strage di Capaci, quella sera il giudice disse: “Questi elementi che io porto dentro di me debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”. L’autorità giudiziaria competente a indagare su Capaci era la procura di Caltanissetta guidata da Tinebra, che convocò Borsellino soltanto nella settimana successiva al 19 luglio, dunque un mese dopo quell’intervento pubblico, quando ormai la strage di via d’Amelio era stata eseguita. A partecipare all’incontro di Casa Professa, quella sera del 25 giugno ’92, c’era anche un giovane studente di Giurisprudenza: Fabio Repici, oggi legale di Salvatore Borsellino.

La saldatura tra neri e mafia – “In questo scenario nel quale ci muoviamo io ritengo che sia importante evitare di introdurre elementi che creino confusione. Bisogna evitare di rimettere in gioco elementi depistanti per chi vuole muovere alla ricerca della verità”, ha detto l’avvocato, che ha rappresentato i familiari delle vittime di alcuni dei più rilevanti delitti politico-mafiosi degli ultimi decenni. Sulla base dell’esperienza che si è fatto lavorando sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, del poliziotto Nino Agostino e del magistrato Bruno Caccia, Repici ha tracciato un filo nero che si dipana lungo una direttrice fatta di stragi e omicidi eccellenti: dal fallito attentato dell’Addaura del 1989 a quello dello Stadio Olimpico. Ha fatto il nome di Paolo Bellini, ex estremista nero condannato in primo grado per la strage di Bologna e indagato per quelle di Capaci, di Firenze, Roma e Milano, ma pure quelli di Luigi Savona e Giovanni Bastone, massoni legati alla famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, che sulle strategia stragista ha avuto un ruolo per troppo tempo sottovalutato. “È pacificamente accertato che le strade dello stragismo esecutivamente commesso da Cosa nostra e iniziato con l’omicidio di Salvo Lima, passando per la stragi di Capaci e via D’Amelio si saldarono con l’intervento di soggetti di tutta altra provenienza come quella della eversione neofascista“, ha fatto notare Repici. E a questo proposito ha ricordato che il “nero” Bellini “è stato protagonista attivo delle mosse di Cosa Nostra nel 1992 grazie alla relazione con personaggi importantissimi mafiosi come Giovanni Brusca, Nino Gioè e Gioacchino La Barbera“. L’ex di Avanguardia nazionale, ha proseguito il legale, “ha avuto una presenza quasi fissa in Sicilia, dal 1991 e sappiamo con certezza che il suggerimento a Cosa nostra di colpire il patrimonio architettonico nelle stragi del 1993 è provenuto proprio da Bellini”.

Tra negazionismo e revisionismo – Secondo l’avvocato, dunque, bisogna unire i puntini: occorre indagare su quel filo nero che collega stragi e omicidi eccellenti. “Sarebbe un errore considerare la strage di via D’Amelio un delitto fuori dalla storia: quel delitto è parte di un percorso che risale almeno al 1989, nella sua fase minima che si può individuare e che si completa nel ’94 quanto alla esecuzione di delitti di progetti esecutivi di stragi propriamente intese, ma che vede ulteriori effetti anche nei decenni successivi, almeno fino alla cattura di Provenzano e perfino in epoca recente con tentativi di ricatti da una cella al 41bis per conto di Giuseppe Graviano“. E anche se via D’Amelio “va vista nei suoi dettagli di unicità”, non si può ignorare che “il quadro è più ampio altrimenti la verità non la si trova”. A questo proposito Repici ha aggiunto: “Da un pò di tempo si avverte la pratica di un fenomeno, a mezza via tra negazionismo e revisionismo. Riscrivere la storia in un’ottica panmafiosa per cui certi delitti sono esclusivamente frutto di azioni poste da uomini cosa nostra”. Ma quasi tutte le stragi della recente storia italiana – da Portella delle Ginestra a piazza Fontana – ci hanno insegnato che spesso gli esecutori fanno da service dell’orrore: sparano su ordinazione di qualcun altro.

Il depistaggio, Contrada e le rivelazioni di Mutolo – Su via d’Amelio Repici ci ha tenuto a sottolineare che “l’epifania del depistaggio la nostra nazione la deve non a un uomo o una donna dello Stato ma un uomo di Cosa nostra che si chiama Gaspare Spatuzza, il disvelamento di ciò che era successo sulle losche manovre che avevano condotto all’accettazione del ruolo di falso collaboratore da parte di Vincenzo Scarantino è avvenuta grazie a Spatuzza che iniziò a collaborare nel giugno del 2008″. Un depistaggio che matura subito dopo la strage quando Tinebra chiede la collaborazione di Bruno Contrada, uomo dei servizi che non avrebbe potuto partecipare all’indagine. Per due motivi: intanto perché era vietato dalla legge che l’intelligence svolgesse compiti di Polizia giudiziaria. E poi, soprattutto, perché il pentito Gaspare Mutolo aveva raccontato a Borsellino che era a conoscenza di soggetti istituzionali con un ruolo di contiguità con Cosa nostra. Mutolo fece due nomi: Bruno Contrada e Domenico Signorino, cioè quello che all’epoca era il numero tre del Sisde e un magistrato che era stato pm del Maxiprocesso. “Le indagini sulla morte di Paolo Borsellino sono state, almeno in parte, affidate a uno che sarebbe stato indagato da Paolo Borsellino”, ha sintetizzato Repici. Ricordando come Tinebra fosse a conoscenza delle rivelazioni fatte da Mutolo a Borsellino. “Quella circostanza fu riferita il 20 luglio del 1992 a Tinebra ma questo non riuscì a impedire che il procuratore affidasse le indagini a Contrada, fuori dalla legge”. Dopo la strage, tra l’altro, quell’incarico a Contrada avrà avuto probabilmente un effetto intimidatorio: dovranno passare, infatti, più di tre mesi prima che Mutolo si convinca a ripetere quelle accuse nei confronti del superpoliziotto. Che verrà arrestato nel dicembre dello stesso anno, quando ormai aveva indirizzato le indagini di Arnaldo La Barbera e della Polizia sul Vincenzo Scarantino, il balordo della Guadagna al centro del depistaggio su via d’Amelio. Repici ripartirà da qui, quando proseguirà la sua audizione. La data della nuova convocazione verrà decisa dalla commissione di Chiara Colosimo nei prossimi giorni.

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