Giovanni Caterino era il basista della strage di San Marco in Lamis. La Cassazione ha messo la parola fine sul processo al 43enne, accusato di aver contribuito al quadruplice omicidio del 9 agosto 2017 in provincia di Foggia nel quale vennero uccisi il boss Mario Luciano Romito, figura di primo piano della mafia garganica, il cognato Matteo De Palma e i contadini, testimoni involontari, Luigi e Aurelio Luciani.

I giudici della Suprema corte hanno respinto il ricorso di Caterino e quindi la sentenza di ergastolo emessa dalla Corte d’appello di Bari è diventata definitiva. Il basista venne arrestato il 16 ottobre 2018 e si è sempre professato innocente. I tre gradi di giudizio hanno invece ritenuto che fece da apripista al commando che uccise Romito e il cognato, falciando anche i due fratelli testimoni involontari dell’agguato al boss, uscito da poco dal carcere.

Il 30 novembre 2020 Caterino fu condannato al “fine pena mai” in primo grado, confermato dai giudici in appello che disposero per lui anche 18 mesi di isolamento diurno. Alla base dell’omicidio di Romito ci fu l’eterna faida tra la sua famiglia e i Li Bergolis, iniziata nel 2009 quando durante un processo scoprirono che il capostipite dei loro vecchi alleati per anni aveva in realtà fatto il confidente delle forze dell’ordine, nonché la guerra più recente per il controllo del narcotraffico nella zona di Vieste. Una ridefinizione degli assetti di potere che portò al quadruplice omicidio, uno dei fatti di sangue più eclatanti compiuti dalla quarta mafia, perché il vecchio boss veniva considerato un ostacolo al riequilibrio delle dinamiche mafiose del Gargano.

Oltre alla ricostruzione effettuata dalla procura sulla base di intercettazioni telefoniche e dati gps, il ruolo di Caterino era stato anche tratteggiato da un collaboratori di giustizia, Andrea Quitadamo. Nei mesi successivi all’agguato, Caterino era stato a sua volta vittima di un tentato omicidio – con ogni probabilità organizzato dal clan rivale – perché nell’ambiente mafioso del Gargano era evidentemente emerso il suo ruolo all’interno dell’uccisione di Romito.

Il giorno della strage di San Marco in Lamis, secondo la ricostruzione degli inquirenti della Dda di Bari incrociando i dati con le celle telefoniche, Caterino era alla guida di una Fiat Grande Punto che seguì “il medesimo percorso” del Maggiolone guidato da De Palma sul quale viaggiava Romito “fino al luogo dell’agguato, dove invertiva la marcia e rientrava a Manfredonia presso l’abitazione del proprietario”, si leggeva nell’ordinanza di arresto dell’uomo.

Una fuga disperata, dopo aver fatto da “auto staffetta”, a folle velocità lungo le strade provinciali nei minuti successivi alla strage. I carabinieri sono sempre stati convinti, grazie alla georeferenziazione, che Caterino fosse a bordo della Punto anche nei giorni precedenti durante quattro appostamenti e pedinamenti per studiare i movimenti di Mario Romito. Una ricostruzione ritenuta credibile dai giudici. A distanza di oltre sei anni dalla strage restano invece senza volto i killer che aprirono il fuoco da una C-Max che venne data alle fiamme dopo la mattanza.

I sicari vennero anche ripresi in lontananza mentre si dirigevano “in direzione di una masseria” frequentata dallo stesso Caterino che gli inquirenti ritengono il luogo dove gli uomini del commando “hanno potuto trovare temporaneo rifugio” dopo l’esecuzione. Sempre il collaboratore di giustizia Quitadamo – come aveva anticipato il sito Immediato.it – avrebbe svelato chi, a suo dire, fece parte del commando, ovvero Saverio Tucci, assassinato nel 2017 in Olanda, Girolamo Perna, ucciso nella faida di Vieste, ed Enzo Miucci, reggente del clan Li Bergolis.

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