La situazione è tesa in tutta Europa e dopo l’attentato omicida di Bruxelles sono otto i Paesi Ue che hanno deciso di sospendere il trattato di Schengen sulla libera circolazione alle frontiere interne. Dal 21 ottobre e per un periodo di dieci giorni prolungabile poi fino a sei mesi, l’Italia ha ripristinato i controlli al confine con la Slovenia perché, assicurano i nostri servizi a Palazzo Chigi, il pericolo fondamentalista passa dalla rotta balcanica. Una misura necessaria, ha detto Giorgia Meloni rivendicando ogni responsabilità, anche per contrastare “l’aumento dei flussi migratori”. Secondo il Viminale, infatti, dietro ai 16mila ingressi irregolari di quest’anno ci sarebbero “misure di polizia al confine italo-sloveno non adeguate a garantire la sicurezza richiesta”. La giustificazione dell’aumento di arrivi in Friuli Venezia-Giulia è incompatibile con le norme europee, che contemplano la sospensione del trattato come extrema ratio e solo in caso di grave minaccia. Tuttavia le forzature non sono una novità. Da tempo Schengen non gode di buona salute e molti Paesi avevano già ripristinato controlli, dalla Francia alla Germania, dall’Austria alla Svezia. Ma è sul fronte dell’immigrazione che l’efficacia del provvedimento risulta più improbabile. Anzi, a meno di non voler violare la legge c’è il rischio di aumentare il numero di richiedenti in Italia.

Partiamo dalla prevenzione anti-terrorismo. Secondo ciò che i servizi vanno spiegando al governo, proprio per l’assenza di controlli la rotta balcanica rappresenta un “percorso privilegiato” per i terroristi. Perché, sostengono, a differenza degli arrivi via mare – dove tutti vengono fotosegnalati e se possibile identificati – parte degli ingressi da Nord-Est sfuggono a qualunque radar. C’è da sperare che gli 007 non siano gli stessi che a marzo mettevano in guardia dai migranti irregolari pronti a partire dalla Libia: 685mila, che si rivelarono essere l’intera popolazione straniera presente nel Paese. Ma andiamo oltre, “favoriscano i documenti” e si sospenda Schengen, come farà anche il governo sloveno sul confine croato e ungherese. Primo: una parte degli attraversamenti di confine lungo la rotta balcanica avviene a piedi. E non si può escludere che maggiori controlli modifichino una rotta che resta fluida e già in passato capace di ridefinire i suoi percorsi. Poniamo invece che il terrorista arrivi in macchina e che lo fermino alla dogana. Se privo di documenti può essere respinto direttamente alla frontiera, come non fosse mai entrato in Italia. Ma a differenza dell’espulsione, i respingimenti non prevedono divieti di reingresso, né il nominativo dello straniero respinto va segnalato al SIS, il Sistema informativo Schengen.

Come il governo ha ribadito più volte dall’attacco di Hamas a Israele, “abbiamo visto entrare migliaia di immigrati clandestini senza controllo e senza identificarli, creando un problema anche per la sicurezza nazionale”. Fermato al confine, il terrorista potrebbe dunque spacciarsi per un richiedente asilo. Fotosegnalato, identificato, con le norme introdotte dal governo ha davanti diverse opzioni a seconda che provenga o no da uno dei Paesi d’origine che l’Italia considera sicuri. Oltre la metà dei migranti che arrivano dalla rotta balcanica sono cittadini afghani, il 25% viene dal Pakistan, tra il 4 e 6% dal Bangladesh, dall’India e dalla Turchia (questi ultimi sono prevalentemente curdi). Il 2% viene dal Nepal e un ulteriore 5% raccoglie altre nazionalità, soprattutto burundesi, iracheni e iraniani. Nessuno dei Paesi citati è nell’elenco dei Paesi d’origine che attualmente l’Italia considera sicuri: a meno di non eludere i controlli evitando la dogana e di venire poi beccati, la quasi totalità di chi proviene dalla rotta balcanica non può quindi essere sottoposto alla controversa procedura di frontiera che prevede il trattenimento dello straniero e subordina il suo rilascio nel territorio all’esame accelerato della domanda d’asilo. Tanto che l’attuale assenza di centri per trattenere i richiedenti (ce n’è solo uno in Sicilia) diventa un dettaglio. Ai migranti da Nord-Est va dunque applicata la procedura ordinaria, con l’inserimento nel sistema d’accoglienza dove gli ospiti rimangono liberi di entrare e uscire. Certo, c’è sempre la possibilità che il terrorista desti sospetti, ma in quel caso è l’attività d’intelligence a fare la differenza. Senza dimenticare che nemmeno l’espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo si traduce per forza nell’allontanamento dal territorio, essendo la decisione amministrativa una “decisione di rimpatrio” (direttiva Ce 2008/115). A che punto siamo coi rimpatri è cosa nota: oltre la metà riguarda tunisini (dati del ministero dell’Interno) e nessun governo è riuscito a espellere più del 50% degli stranieri transitati ogni anno dai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dove non passano più di 5-6 mila persone l’anno.

Spostando l’attenzione sul fronte dei migranti, che il governo conta di bloccare con il ripristino dei controlli, va detto innanzitutto che la sospensione di Schengen non può in alcun modo limitare il diritto d’asilo. “Gli Stati membri agiscono nel pieno rispetto (…) del pertinente diritto internazionale, compresa la convenzione relativa allo status dei rifugiati firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non-refoulement (non respingimento), e dei diritti fondamentali” dice l’articolo 3 del Codice frontiere Schengen. In altre parole, al più classico “documenti, prego”, il migrante intenzionato a chiedere protezione ha il diritto di farlo e di essere ammesso in Italia a tale scopo. Di quanto rilevato dagli operatori impegnati in Friuli Venezia-Giulia, è interessante notare come solo il 32% dei migranti dichiari di voler presentare domanda in Italia. La maggior parte prosegue subito il viaggio per raggiungere altri Paesi europei, come i dati sulle richieste d’asilo avanzate in Germania, Francia e non solo confermano. Se aumentare i controlli significherà intercettare più persone, la diretta conseguenza sarà quella di costringere più persone a fare domanda di protezione in Italia e fermarsi qui invece di cercare accoglienza in altri Stati Ue. Insomma, c’è anche il rischio che sia un pessimo affare.

Codici alla mano, dunque, la sospensione di Schengen in funzione anti-immigrati non sembra poter funzionare. A meno di non voler fare carta straccia dei codici e usare i controlli per negare alle persone la possibilità fare richiesta d’asilo o, peggio, fare finta che non abbiano manifestato tale volontà. È già accaduto nel 2020 con le cosiddette riammissioni informali verso la Slovenia. Il termine è vago quanto improprio, visto che si attuavano veri e propri respingimenti a catena di persone che finivano nuovamente in Bosnia ed Erzegovina dopo abusi e sofferenze. Una prassi cara al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che vorrebbe ripristinarla nonostante il diritto interno e quello comunitario impediscano simili pratiche e un’ordinanza del tribunale di Roma ne abbia dichiarato l’illegittimità. Il Testo unico dell’immigrazione (D. Lgs. 286/98) dispone che tutti i provvedimenti di espulsione amministrativa e di respingimento hanno la forma del decreto e devono essere motivati in fatto e in diritto. E che producono effetti solo una volta notificati e comunicati alla persone insieme all’indicazione per fare ricorso e a una traduzione in una lingua conosciuta allo straniero. Ecco, violando la legge e calpestando i diritti c’è l’effettiva possibilità che gli arrivi al confine italo-sloveno, appena un decimo degli oltre 140mila sbarchi dal Nord Africa, si riducano. Con questa preoccupazione c’è già chi ha permesso “uno stretto monitoraggio sull’evoluzione della situazione”. Il Consorzio Italiano di Solidarietà di Trieste, che da anni offre assistenza a chi arriva dalle rotte balcaniche, teme che la situazione internazionale sia l’alibi per “riproporre gravissime condotte illegali tramite respingimenti tassativamente vietati dal diritto internazionale ed europeo”.

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