E anche Martin Scorsese ce lo siamo giocati. Chi andrà a vedere Killers of the Flower Moon in sala si dividerà tra chi conosce e spesso adora l’ “autore” e lo cerca da anni senza ritrovarlo più come allora, e chi “non rompeteci le palle vogliamo solo vedere un film”. Ebbene, tristi notizie per entrambi i gruppi di spettatori: le 3 ore e 26 di Killers of the Flower Moon scontenteranno sia i fan dell’autorialità che i passanti antiautoriali.
I primi, ad esempio, sappiano che Scorsese non ha più quella furia iconoclasta formale di aggredire la materia e di girare, di scuotere le storie e di spettacolarizzarle. Ad esempio, nel film spesso Scorsese prova a shakerare gli ingredienti per rendere elettrico il racconto e l’idea di messa in scena. Una pungolatina all’amata Thelma Schoonmaker per dare frenesia al montaggio. Una sfregatina al sottofondo musicale che sembra una intro perenne dei Rolling Stones in versione indiano tribale. Le solite incursioni in interni con macchina da presa a mano per piani sequenza che sfondano addirittura stanze vuote non significando nulla. Marchingegni e trucchi di maniera, vani simulacri di tecnica (le scene di massa sono un vero disastro) che oggi e con la storia raccontata c’entrano come i cavoli a merenda.
Eccoci poi al secondo gruppo di delusi, quelli che vanno a vedere il film senza badare a chi lo gira. E qui forse son più dolori. Perché Killers of the Flower Moon moon è un prolisso e noioso intreccio di colpa e redenzione giocato su quattro cinque sottotrame, una più esile dell’altra. E pensare che siamo dalle parti del thriller, anche se sul tema indiani nella riserva traviati e sterminati dai bianchi c’è chi ha fatto meglio con maggiore intensità drammaturgica e sgrassatura di orpelli tematici (citiamo lo splendore abbagliante de I segreti di wind river di Taylor Sheridan con Jeremy Renner).
Del resto Killers of the Flower Moon nasce su un paio di contraddizione etiche e un mistero nell’aria. Tra gli anni dieci e venti del Novecento nella contea di Osage in Oklahoma, dove sono stati parcheggiati gli ultimi discendenti della tribù degli Osage, viene scoperto petrolio a fiumi. I ricchi sfondati, quindi, proprio con smoking, abitazioni di lusso, automobili e autista (bianchi) sono i pellerossa che hanno per diritto le concessioni dell’oro nero. Anche se i bianchi fanno di tutto per ostruirne la crescita e l’integrazione socio-economica a partire da invenzioni burocratiche, matrimoni combinati soprattutto tra uomini bianchi e donne indiane per diventarne in parte eredi, ma soprattutto facendo scomparire i pellerossa, già di salute precaria di fronte alle cibarie dei bianchi, qui seccati come mosche con pallottole in fronte da non si sa bene chi o per strani deperimenti organici cronicizzati da medici compiacenti.
Lo scalcagnato e zotico Ernst (Leonardo DiCaprio) torna dal fronte della prima guerra mondiale in Europa senza più muscoli nello stomaco per andare a lavorare dal ricco allevatore di bestiame, che si proclama vicinissimo amico degli Osage, suo zio William Hale (Robert De Niro), un tizio ambiguo che si fa chiamare dai nipoti nientemeno che “king”. Ernst farà proprio l’autista e si innamorerà al primo sportello chiuso tra il fango delle strade turbolente e iperpopolate dalla corsa all’oro di Fairfax, della silenziosa Osage, Mollie (Lily Gladstone, diciamolo subito: la migliore del cast). Attorno alla ricca Mollie, comunque tenuta sotto tutela economica da un consigliere azzeccagarbugli, c’è l’anziana madre, le sorelle tutte sposate con altri uomini bianchi. Una sorta di grande famiglia allargata che gradualmente viene decimata da questo strano destino di morte.
Ernst e Mollie si sposeranno, avranno due bambini, ma a riempire il racconto non è tanto la vita familiare della robusta ragazza quanto l’andirivieni di killer o pseudo tali che mister Hale gestisce come un boss della mala. E proprio in questo aspetto gangsterisco Scorsese deve aver trovato un pertugio per infilare la sua fibrillante poetica ed estetica con risultati però fiacchi e inconsistenti. Per tenere all’erta lo spettatore per oltre tre ore di film – operazione durata già claudicante con il già dimenticato The Irishman – ci vuole una foga compositiva e un intreccio di situazioni e personaggi che, come minimo, non può e non deve ripetersi ogni due pagine di sceneggiatura. Come ad esempio, chi vedrà capirà, quel buco nero che si crea tra il minuto 50 e il minuto 130 dove l’opera si inabissa nella giaculatoria omicida dettagliata soprattutto nel reclutamento (oseremmo dire, quasi comico) dei vari killer sottopancia.
Per fortuna l’arrivo degli agenti della neonata FBI di Hoover, capitanati da Jesse Plemons, rivitalizzano un tantino il cadavere di un film oramai svuotato di ogni velleità di denuncia con una coda “radiofonica” apparentemente frizzantina e la comparsa di uno Scorsese a ridare dignità agli indiani cancellati dalla faccia del pianeta che grida pietà. Le ultime righe le dedichiamo a DiCaprio e De Niro. Il primo ingrugnito e corrucciato come un redneck ante litteram, tutto denti gialli e batuffoli sotto le mandibole come un Brando qualsiasi, esaspera e appiattisce il già bolso cliché dello zotico. Il secondo che dovrebbe essere anima luciferina si limita anch’esso al surrogato del suo ghigno classico da belva (o da uno che sente una puzza improvvisa sul set) incancrenito nel suo logoro cliché da cattivo. E non diteci che la colpa di questo scarso apporto attoriale non è del regista del film.