Se volete aiutare i palestinesi, dovrete farlo a casa loro: è questo, in sintesi, quanto il cancelliere tedesco Olaf Scholtz si è sentito dire non dalle forze politiche di estrema destra in Europa ma dai governanti di quelli che i media da anni chiamano i “paesi arabi moderati”. Il cancelliere socialdemocratico, primo leader occidentale in Medio Oriente dopo le stragi del 7 ottobre – data non casuale: è l’anniversario della battaglia di Lepanto – e lo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, si era posto come obiettivo prevenire un’escalation, ma anche il miglioramento della situazione umanitaria a Gaza. Proprio con quest’ultima in mente è saltato da Tel Aviv al Cairo per coinvolgere l’Egitto nella crisi politica e umanitaria in atto. Lo stesso ha fatto in Giordania, incontrando il sovrano, Abdullah II. Le reazioni delle parti egiziana e giordana agli incontri con lo stesso Scholz e, a parte, col segretario di stato americano Antony Blinken, ma anche all’evoluzione militare e sociale della crisi, forniscono un quadro delle posizioni di questi importanti paesi confinanti, con i quali Israele ha concluso due distinti trattati di pace, rispettivamente nel 1979 e nel 1994. Merita di essere presa in considerazione anche l’altra Palestina, distinta da Gaza, vale a dire quello che l’Onu chiama lo Stato di Palestina e che dagli accordi di Oslo nel 1993 è rimasta in pace con Israele, governata dal quasi novantenne Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen.
Cisgiordania – Proprio il silenzio iniziale di quest’ultimo aveva attirato a pochi giorni dalle stragi del 7 ottobre, la reazione adirata del cancelliere tedesco. Eppure, è dell’anziano leader palestinese la presa di posizione più interessante tra quelle emerse tra i Paesi arabi “moderati”. Ricordiamo che il movimento Fatah, che controlla l’Olp e l’Autorità Palestinese al potere in Cisgiordania, ha un rapporto pessimo con Hamas da quando quest’ultimo ha preso con un violento colpo di stato il controllo della Striscia di Gaza nel 2007 e ha tolto di mezzo tra lo stesso 2007 e il 2009, spesso con grande uso della violenza, tutti gli uomini di Fatah dall’enclave costiera, da dove Israele si era ritirato unilateralmente nel 2005.
Il presidente palestinese ha detto al segretario di Stato americano Antony Blinken che “respinge lo sfollamento forzato” dei palestinesi da Gaza, in seguito all’ordine di Israele di spostare tutti i civili dell’enclave verso sud, definendolo come tale una “seconda Nakba”, “catastrofe” in arabo, riferendosi alla fuga di 760mila palestinesi nella guerra del 1948 che seguì la creazione di Israele. La posizione di Abu Mazen, espressa pubblicamente in varie occasioni – ma poi sempre edulcorata nei comunicati ufficiali-, è che Hamas porta le responsabilità delle sue azioni e che non rappresenta né il popolo palestinese né ne costituisce una legittima autorità di governo. Insomma, gli stati devono far riferimento al suo governo come “l’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese” e considerare “le politiche di qualsiasi altra organizzazione” come fatte da un potere illegale. Non a caso, è sembrato proporsi come mediatore chiedendo il rilascio di “prigionieri e detenuti” da entrambe le parti, ma soprattutto come interlocutore unico una volta che si sarà passati dalle grida delle armi ai bisbigli della diplomazia.
Giordania – Blinken e Scholz hanno incontrato, in due meeting distinti, il re di Giordania Abdullah II. La posizione del monarca è apparsa subito chiara: sì a apertura di corridoi umanitari per l’assistenza sanitaria e umanitaria alla popolazione di Gaza, sì alla protezione della popolazione civile e, come ultimo auspicio, la fine dell’escalation e della guerra. Ricordiamo che la Giordania ospita 2,2 milioni di nativi palestinesi di cui due terzi sono stati integrati come cittadini (il più celebre dei quali è la regina Rania, nata in Kuwait da genitori di Tulkarem), mentre i restanti conservano lo status di rifugiati. Oltre a loro, il piccolo regno hashemita ospita 1,4 milioni di rifugiati siriani e poco meno di duecentomila tra Yemeniti, Libanesi e Iracheni, per non parlare di Circassi, Ceceni e Armeni, insieme il 5% della popolazione, che si sono trasferiti da queste parti nel corso del Ventesimo secolo. I numeri sono impressionanti se consideriamo che la piccola monarchia araba occupa un territorio grande meno del trenta per cento dell’Italia e ha una popolazione di quasi un quinto della nostra: è un po’ come se l’Italia ospitasse quindici milioni di richiedenti asilo, invece che i circa 380mila di fine 2022, o se avesse 24 milioni di residenti stranieri, invece che i cinque milioni registrati a inizio 2023. Il re di Giordania ha tolto di mezzo quello che era l’obiettivo del cancelliere tedesco Olaf Scholz, cioè che i paesi arabi vicini possano accogliere i rifugiati palestinesi che fuggono dalla Striscia di Gaza in vista di un’offensiva di terra prevista da parte dell’esercito israeliano. L’erede di quel re Hussein che fece la pace con Israele nel 1994 è stato chiaro: “Penso di poter parlare qui a nome della Giordania, ma anche dei nostri amici in Egitto: questa è una linea rossa. Nessun rifugiato in Giordania e nessun rifugiato in Egitto“.
Egitto – Il presidente egiziano Abdel Sisi ha colto al balzo la palla del leader giordano e ha affermato che non è proponibile liquidare la causa palestinese di Gaza sfollando la popolazione arabofona dalla Striscia “a spese dei paesi della regione”: “Non è solo una questione di intraprendere un’azione militare contro Hamas ma un tentativo di spingere i residenti civili a cercare rifugio e a migrare in Egitto”. A parte il non ritenere quello militare uno strumento adeguato a risolvere una volta per tutte i problemi della Striscia di Gaza, ha lanciato un messaggio a Israele sostenendo che lo spostamento forzato dei palestinesi da Gaza all’Egitto, che costituirebbe un precedente per lo “spostamento dei palestinesi dalla Cisgiordania alla Giordania, significherebbe semplicemente trasferire i combattimento dalla Striscia di Gaza al Sinai trasformando il Sinai stesso in una per lanciare operazioni contro Israele, che per giunta sarebbe colpito dal territorio egiziano e non da quello di uno stato non internazionalmente riconosciuto. Inutile anche parlare di un trasferimento provvisorio: sarebbe definitivo, come tutti quelli accaduti con masse di rifugiati palestinesi in passato.
Vale la pena, in conclusione, di aggiungere che il Cairo e Amman, insieme a Ramallah, con la loro reazione ben coordinata alla richiesta ufficiosa di Berlino di aprire le porte ai rifugiati palestinesi, hanno fatto il gioco dei paesi occidentali, su cui altrimenti finirebbe per riversarsi – attraverso la costa egiziana e quella libica- una massa di richiedenti asilo superiore a quella della crisi del 2015, quando 1,3 milioni di siriani si precipitarono sull’Europa centrale. L’impressione è che il presidente Sisi e il re Abdullah abbiano messo in piedi un meccanismo di cooperazione e coordinamento tra i due paesi che potrebbe rivelarsi prezioso nel corso dei prossimi mesi, tenendo in serbo il governo di Ramallah, rispettabile e razionale, in vista dei futuri sviluppi non militari del conflitto.