Genitori di un ragazzo down, angosciati da cosa ne sarà di lui alla loro morte. Allarmati dalla proposta di inserimento del figlio in una convivenza guidata con altri ragazzi, magari in un appartamento di edilizia pubblica in un condominio ad alta densità di casi sociali.
Coppia di anziani ancora attivi, con pensione decorosa, desiderosi di essere accuditi e accompagnati in qualche incombenza senza per questo doversi confinare in una casa di riposo dalle rette proibitive e dalla socialità limitata.
Persone affette da patologie croniche invalidanti che possono vivere a casa loro, ma che potrebbero farlo meglio e più serenamente con servizi “a domanda” immediatamente a portata di mano, utili a rafforzare la loro autonomia.
Persone rimaste da sole, dopo una vita con la famiglia numerosa ora adulta e sparpagliata per il mondo, in case diventate troppo grandi e costose nelle spese di gestione. Stanno lì perché non saprebbero dove andare.
E così via, ogni caso è una storia a sé, ma ben conosce l’importanza di una residenza che non sia isolamento rispetto al fuori, ma compenetrazione con il vicinato e la comunità intorno, servizi compresi.
La nostra società invecchia con grande rapidità e, nonostante le politiche nel settore siano inesistenti, aumenta anche il desiderio di autonomia delle persone svantaggiate, magari dotate di un reddito che permette loro di restare lontane dai servizi sociali. La tecnologia aiuta, così come aiutano gli accorgimenti nell’edilizia e nella cura degli spazi pubblici comuni. Come affrontare questa trasformazione demografica – operando lungo linee che potenziano solidarietà, eguaglianza e condivisione – è anche immaginare e realizzare politiche dell’abitare che contrastano la marginalizzazione delle persone in difficoltà: case di riposo sempre più care, introvabili e lontane dal luogo di vita; invalidi costretti a ricorrere a sostegni per via delle barriere architettoniche; persone obbligate a diventare semi-autonome perché non possono ottenere un aiuto temporaneo e ridotto che permetterebbe loro di autonomizzarsi; eccetera. Che sia per l’età, per efficienza fisica, per cultura o per reddito, sempre il tema si ripropone ogni volta che ci si trova a fare i conti con bisogni a cui un paese statico come il nostro risponde con soluzioni vecchie, improponibili, inutilmente costose e perciò, alla lunga, impraticabili. Oppure con esperienze generate da forti contenuti ideali che partono bene e poi, a volte, si trasformano in pesi tanto più forti con l’invecchiamento di chi li ha promossi.
Di queste contraddizioni si è ragionato qualche giorno fa al debutto operativo (l’inaugurazione è avvenuta in maggio) di un condominio solidale a Nichelino (TO), tale non solo per volontà dei suoi residenti, alcuni dei quali guardano forse con distacco all’esperienza di cui pure sono parte, ma perché integra residenzialità urbana con servizi di supporto agli inquilini in alcuni degli appartamenti del complesso. L’hanno chiamato servizio di “portierato sociale”. Il condominio si chiama Debouché, l’intervento è realizzato dalla Coop. Di Vittorio, ed è gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Torino. Otto appartamenti del complesso – realizzato in edilizia convenzionata a proprietà indivisa, dunque alloggi in affitto a canoni “normali” – sono a disposizione di famiglie e gruppi di convivenza che necessitano di una residenza “assistita”. Gli inquilini “solidali” non sono perciò il prodotto di una selezione operata dai servizi sociali sulla base di criteri dove l’indigenza gioca sempre un ruolo pesante. Arrivano col passaparola, attraverso la pubblicità e, a volte, attraverso la promozione dei servizi sociali. Li indirizzano verso una soluzione di questo genere quando verificano condizioni di famiglie o singoli dotati di un reddito che consente loro di pagare un affitto normale in un contesto protetto. Proprio per avviare il processo di interazione e integrazione, nel portierato sociale sono organizzate quotidianamente attività di varia natura, rivolte a tutti i residenti nel circondario. Debutto il 18 settembre scorso con le iniziative over 65 e non solo.
Progetti come questo aprono la strada al futuro dell’abitare invecchiando e al mantenere l’autonomia in condizioni di invalidità. Per questo andrebbero incentivati, a cominciare dai piani di edilizia pubblica, specie quella convenzionata. Invece continuano a essere considerati esperimenti bizzarri, circoscritti nello spazio e nel tempo, di cui la politica nemmeno si occupa, così li depotenzia. Almeno fino a quando l’emergenza non esploderà, così come sta succedendo per l’edilizia residenziale per gli studenti fuori sede.
Prima o poi anziani, malati, invalidi o semplicemente persone alla ricerca di una forma dell’abitare compatibile con la fase della vita e con le loro possibilità saranno costretti a mettere le tende davanti alle sedi delle istituzioni che avrebbero dovuto prevedere e dare risposta al bisogno. E dire che basterebbe, intanto, vincolare i piani di edilizia a destinare il 10% del realizzato a forme assistite di abitazione e coabitazione, mettendo al lavoro la cooperazione sociale e le associazioni per definire modelli e riempire di contenuti i tanti “portierati sociali” che vorremmo in Italia.