A questo punto, inizia il percorso attraverso il Congresso. E qui il pacchetto di aiuti militari, umanitari e per la sicurezza chiesti da Joe Biden – per Israele, Ucraina e altre aree centrali agli interessi americani – appare a rischio. È infatti improbabile che la Camera, ancora senza speaker, riesca a riunirsi per approvare la misura. Di più. L’opinione pubblica americana, cui Joe Biden si è rivolto appellandosi all’idea della “America faro di libertà” appare molto più confusa e divisa di quanto le parole del presidente non mostrino. O auspichino.
Le notizie che nelle ultime ore arrivano dalla Camera non sono positive per l’amministrazione. I repubblicani, consumati dalle faide interne, non riescono a mettersi d’accordo sulla nomina dello speaker. Dopo tre voti andati male, Jim Jordan, il candidato favorito di Donald Trump e della destra più radicale, si è ritirato. Lui sarebbe andato avanti a oltranza ma è stato il partito, spaventato dall’immagine di incontrollabile rissosità che offre ormai da mesi all’opinione pubblica, a chiedergli di fare un passo indietro. A questo punto, i candidati sono tanti e le certezze poche. Per il ruolo di speaker si sono fatti avanti in tanti: Mike Johnson, deputato della Louisiana ed ex personalità televisiva; Jack Bergman del Michigan, ex marine in pensione; Byron Donalds della Florida, uno dei quattro afro-americani eletti tra i repubblicani della Camera; e soprattutto Tom Emmer, che è attualmente capogruppo repubblicano e quello con maggiori probabilità di ridare un minimo di unità al partito lacerato.
Nessuno tra i candidati, ad eccezione forse di Emmer, ha prestigio e fama politica a livello nazionale. Ma a questo punto per i repubblicani non è tanto questione di trovare un candidato “di prestigio”, quanto un candidato che semplicemente liberi il partito dalle secche in cui si è ficcato e riporti la Camera al normale funzionamento. Tocca infatti ai repubblicani scegliere lo speaker. Ma la loro maggioranza è molto esigua e, dato per scontato il voto contrario di tutti i democratici, il candidato repubblicano può permettersi di perdere solo quattro tra i suoi. Si tratta di una quasi unanimità nel voto repubblicano che sinora nessuno tra i candidati è riuscito a realizzare; e che ora Emmer, candidato di compromesso tra la destra e i moderati, potrebbe ottenere.
A un evento di raccolta fondi del partito repubblicano, Biden si è divertito a punzecchiare i repubblicani in difficoltà. “Jim Jordan si è beccato un bel calcio nel didietro”, ha detto. Biden ha comunque poco da festeggiare. Fino a quando i repubblicani non troveranno uno speaker, il pacchetto pro Israele e Ucraina presentato dalla Casa Bianca non può arrivare in aula. Quindi, non può essere votato. L’amministrazione aveva ventilato la possibilità che fosse lo speaker pro-tempore, il repubblicano Patrick McHenry, a calendarizzare il voto. Ma esperti di cose legislative hanno fatto notare che portare in aula una misura da 105 miliardi di dollari, senza uno speaker regolarmente eletto dalla Camera, potrebbe comportare seri rischi di invalidamento del voto.
Il calcolo politico su cui Biden ha costruito la sua misura rischia quindi di fallire in partenza. La Casa Bianca ha messo infatti insieme un pacchetto onnicomprensivo per superare scontri e divisioni. Nella misura inviata al Congresso c’è di tutto. 14.3 miliardi di dollari per le esigenze militari di Israele. 61.4 miliardi per l’Ucraina. 13.6 miliardi per uomini e apparati di sicurezza al confine meridionale col Messico. Oltre 7 miliardi in assistenza militare a Taiwan e alla regione indo-pacifica. 10 miliardi di dollari per l’assistenza umanitaria tra Ucraina e Gaza. Mettendo insieme questioni così diverse – legandole all’insegna dello slogan “America faro di democrazia contro tiranni e terroristi” – Biden pensava di aggirare le resistenze sui singoli capitoli di spesa. I repubblicani conservatori sono disponibili a votare gli aiuti militari a Israele ma non quelli all’Ucraina. I democratici progressisti non vogliono sentir parlare di nuove armi a Israele, ma sono a favore di quelle per Kiev – oltre a essere a favore di aiuti umanitari a Gaza, che però tutti i repubblicani guardano con sospetto.
Per aggirare questo circo di veti, la Casa Bianca ha dunque messo a punto una misura imponente quanto a esborso finanziario, interventismo militare, ampiezza delle aree del mondo prese in considerazione. Una misura, tra l’altro, che utilizza l’urgenza della guerra in Israele per far passare quello che Biden non è riuscito sinora a far passare: un nuovo, massiccio invio di aiuti militari a Kiev. La mossa è in accordo con l’idea che Biden, formatosi politicamente negli anni della Guerra Fredda, continua ad avere dell’America e del suo ruolo nel mondo: quello di guida, guardiano, garante dell’ordine globale. Non è però così certo che l’America del 2023 sia nelle condizioni, economiche, politiche, diplomatiche, di seguirlo su questa strada. I dati di queste ore mostrano che il debito americano ha raggiunto la cifra stratosferica di 1700 miliardi di dollari. A metà novembre scade la misura ponte votata dal Congresso qualche settimana fa, e il governo federale rischia nuovamente di sprofondare nello shutdown. Pur in presenza di un’economia che si mostra vitale, l’inflazione resta alta.
La questione è quindi per quanto tempo l’opinione pubblica americana sarà in grado di accettare investimenti militari così massicci per guerre che si svolgono a migliaia di chilometri di distanza. E per quanto tempo un’amministrazione, che nel giro di qualche mese si troverà nel pieno della campagna elettorale, sarà in grado di giustificare politicamente questi investimenti. Anche perché i messaggi che arrivano dall’opinione pubblica non sembrano in sintonia con la retorica dell’“America faro di democrazia”. Un sondaggio Cnn di queste ore mostra che appena il 16 per cento degli americani pensa che Biden stia gestendo al meglio la guerra in Israele. E il 66 per cento teme che il conflitto tra Israele e Hamas possa portare a nuovi attentati negli Stati Uniti. Insomma, l’opinione interna è più divisa, frammentata, timorosa rispetto all’immagine di America che viene in queste ore rilanciata dalla Casa Bianca. Il fatto – insieme alle difficoltà politiche, diplomatiche, militari americane alla vigilia dell’offensiva di terra israeliana – allunga più di un’ombra sulla strategia presente e futura di Joe Biden.
Mondo
Biden e le armi a Israele e Ucraina (tra i veti incrociati del Congresso). “Usa faro della democrazia”? Stavolta l’America potrebbe non seguirlo
A questo punto, inizia il percorso attraverso il Congresso. E qui il pacchetto di aiuti militari, umanitari e per la sicurezza chiesti da Joe Biden – per Israele, Ucraina e altre aree centrali agli interessi americani – appare a rischio. È infatti improbabile che la Camera, ancora senza speaker, riesca a riunirsi per approvare la misura. Di più. L’opinione pubblica americana, cui Joe Biden si è rivolto appellandosi all’idea della “America faro di libertà” appare molto più confusa e divisa di quanto le parole del presidente non mostrino. O auspichino.
Le notizie che nelle ultime ore arrivano dalla Camera non sono positive per l’amministrazione. I repubblicani, consumati dalle faide interne, non riescono a mettersi d’accordo sulla nomina dello speaker. Dopo tre voti andati male, Jim Jordan, il candidato favorito di Donald Trump e della destra più radicale, si è ritirato. Lui sarebbe andato avanti a oltranza ma è stato il partito, spaventato dall’immagine di incontrollabile rissosità che offre ormai da mesi all’opinione pubblica, a chiedergli di fare un passo indietro. A questo punto, i candidati sono tanti e le certezze poche. Per il ruolo di speaker si sono fatti avanti in tanti: Mike Johnson, deputato della Louisiana ed ex personalità televisiva; Jack Bergman del Michigan, ex marine in pensione; Byron Donalds della Florida, uno dei quattro afro-americani eletti tra i repubblicani della Camera; e soprattutto Tom Emmer, che è attualmente capogruppo repubblicano e quello con maggiori probabilità di ridare un minimo di unità al partito lacerato.
Nessuno tra i candidati, ad eccezione forse di Emmer, ha prestigio e fama politica a livello nazionale. Ma a questo punto per i repubblicani non è tanto questione di trovare un candidato “di prestigio”, quanto un candidato che semplicemente liberi il partito dalle secche in cui si è ficcato e riporti la Camera al normale funzionamento. Tocca infatti ai repubblicani scegliere lo speaker. Ma la loro maggioranza è molto esigua e, dato per scontato il voto contrario di tutti i democratici, il candidato repubblicano può permettersi di perdere solo quattro tra i suoi. Si tratta di una quasi unanimità nel voto repubblicano che sinora nessuno tra i candidati è riuscito a realizzare; e che ora Emmer, candidato di compromesso tra la destra e i moderati, potrebbe ottenere.
A un evento di raccolta fondi del partito repubblicano, Biden si è divertito a punzecchiare i repubblicani in difficoltà. “Jim Jordan si è beccato un bel calcio nel didietro”, ha detto. Biden ha comunque poco da festeggiare. Fino a quando i repubblicani non troveranno uno speaker, il pacchetto pro Israele e Ucraina presentato dalla Casa Bianca non può arrivare in aula. Quindi, non può essere votato. L’amministrazione aveva ventilato la possibilità che fosse lo speaker pro-tempore, il repubblicano Patrick McHenry, a calendarizzare il voto. Ma esperti di cose legislative hanno fatto notare che portare in aula una misura da 105 miliardi di dollari, senza uno speaker regolarmente eletto dalla Camera, potrebbe comportare seri rischi di invalidamento del voto.
Il calcolo politico su cui Biden ha costruito la sua misura rischia quindi di fallire in partenza. La Casa Bianca ha messo infatti insieme un pacchetto onnicomprensivo per superare scontri e divisioni. Nella misura inviata al Congresso c’è di tutto. 14.3 miliardi di dollari per le esigenze militari di Israele. 61.4 miliardi per l’Ucraina. 13.6 miliardi per uomini e apparati di sicurezza al confine meridionale col Messico. Oltre 7 miliardi in assistenza militare a Taiwan e alla regione indo-pacifica. 10 miliardi di dollari per l’assistenza umanitaria tra Ucraina e Gaza. Mettendo insieme questioni così diverse – legandole all’insegna dello slogan “America faro di democrazia contro tiranni e terroristi” – Biden pensava di aggirare le resistenze sui singoli capitoli di spesa. I repubblicani conservatori sono disponibili a votare gli aiuti militari a Israele ma non quelli all’Ucraina. I democratici progressisti non vogliono sentir parlare di nuove armi a Israele, ma sono a favore di quelle per Kiev – oltre a essere a favore di aiuti umanitari a Gaza, che però tutti i repubblicani guardano con sospetto.
Per aggirare questo circo di veti, la Casa Bianca ha dunque messo a punto una misura imponente quanto a esborso finanziario, interventismo militare, ampiezza delle aree del mondo prese in considerazione. Una misura, tra l’altro, che utilizza l’urgenza della guerra in Israele per far passare quello che Biden non è riuscito sinora a far passare: un nuovo, massiccio invio di aiuti militari a Kiev. La mossa è in accordo con l’idea che Biden, formatosi politicamente negli anni della Guerra Fredda, continua ad avere dell’America e del suo ruolo nel mondo: quello di guida, guardiano, garante dell’ordine globale. Non è però così certo che l’America del 2023 sia nelle condizioni, economiche, politiche, diplomatiche, di seguirlo su questa strada. I dati di queste ore mostrano che il debito americano ha raggiunto la cifra stratosferica di 1700 miliardi di dollari. A metà novembre scade la misura ponte votata dal Congresso qualche settimana fa, e il governo federale rischia nuovamente di sprofondare nello shutdown. Pur in presenza di un’economia che si mostra vitale, l’inflazione resta alta.
La questione è quindi per quanto tempo l’opinione pubblica americana sarà in grado di accettare investimenti militari così massicci per guerre che si svolgono a migliaia di chilometri di distanza. E per quanto tempo un’amministrazione, che nel giro di qualche mese si troverà nel pieno della campagna elettorale, sarà in grado di giustificare politicamente questi investimenti. Anche perché i messaggi che arrivano dall’opinione pubblica non sembrano in sintonia con la retorica dell’“America faro di democrazia”. Un sondaggio Cnn di queste ore mostra che appena il 16 per cento degli americani pensa che Biden stia gestendo al meglio la guerra in Israele. E il 66 per cento teme che il conflitto tra Israele e Hamas possa portare a nuovi attentati negli Stati Uniti. Insomma, l’opinione interna è più divisa, frammentata, timorosa rispetto all’immagine di America che viene in queste ore rilanciata dalla Casa Bianca. Il fatto – insieme alle difficoltà politiche, diplomatiche, militari americane alla vigilia dell’offensiva di terra israeliana – allunga più di un’ombra sulla strategia presente e futura di Joe Biden.
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