Trent’anni fa, il 23 ottobre 1993, accadeva un fatto memorabile per la nostra storia giudiziaria e non solo. Una vera svolta che vale la pena ricordare.
Tra le decine e decine di mafiosi (alcuni di elevatissimo rango criminale) arrestati dalla Procura di Palermo che allora dirigevo, il 4 giugno 1993 compare Santino Di Matteo (detto “Mezzanasca”) boss di Altofonte, accusato di vari gravi delitti. Dopo un paio di “falsi allarmi”, un giorno funzionari della Dia mi comunicano che nei loro uffici di Roma c’è Santino Di Matteo e che questa potrebbe essere la volta buona. Ero a Venezia e organizzo subito un viaggio che risulta un po’ rocambolesco, ma all’una e quarantacinque del 23 ottobre ’93 – appunto – riesco a cominciare un interrogatorio di Di Matteo che termina alle sei del mattino. Forse una delle storie più importanti (anche se con risvolti dolorosi) del mio periodo palermitano.
Quando mi sono seduto di fronte a lui, occhi negli occhi, pensavo che volesse parlarmi dei delitti per cui la Procura di Palermo lo aveva arrestato. Difatti egli aveva in mano il relativo mandato e per prima cosa mi disse che ammetteva tutto quel che vi era scritto. Ma intanto, aggiunse, voleva parlare d’altro. E pronunziò una parola di tre sillabe che risuonò in me come una mazzata: “Capaci”. E subito nella memoria affiorò l’immagine dell’autostrada squartata con i volti di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, degli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, oltre all’autista Domenico Costanza miracolosamente scampato.
Gli chiedo: Capaci? Cosa vuole dirmi, Di Matteo? E in sei ore di lunghissimo interrogatorio il boss mafioso snocciola fatti e protagonisti della strage del 23 maggio 1992, alla quale lui stesso aveva materialmente partecipato. Fu come il disvelamento di una verità attesa da un Paese intero. Un primo sprazzo di luce su uno dei delitti più inquietanti della storia della Repubblica.
Per questa confessione Di Matteo pagherà un prezzo feroce, crudele e disumano: il sequestro il 23 novembre ’93 del figlio tredicenne Giuseppe. Che, dopo le continue privazioni e i maltrattamenti gravi di una prigionia durata 779 infiniti giorni, verrà strangolato e sciolto nell’acido dagli “uomini d’onore”. Un omicidio spietato come le rappresaglie nazifasciste. Un crimine che sprofonda il genere umano negli abissi più profondi della perfidia.