Dal 1985 al 2015, l’umanità ha costruito una enorme quantità di villaggi, paesi e città in zone inondabili. E lo ha fatto a una velocità molto più elevata rispetto a quella con cui ha urbanizzato zone a nessuna pericolosità alluvionale. La malizia di chi pensava male, sospettando la mano dell’uomo nella vertiginosa crescita dei disastri alluvionali nel nuovo millennio, viene confermata da un articolo pubblicato di recente su Nature da un gruppo di lavoro coordinato dalla Banca Mondiale. La lezione di Giulio Andreotti – a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca – è sempre attuale.

Sarebbe indispensabile adattare gli insediamenti umani ai cambiamenti del clima, ma molti paesi stanno invece aumentando rapidamente la loro esposizione alle inondazioni. È una tendenza preoccupante, soprattutto perché il riscaldamento globale ha innescato una progressiva intensificazione del ciclo idrologico. Frequenza e severità dei fenomeni estremi non saranno insensibili a questa accelerazione.

Lo studio analizza sia le inondazioni torrentizie e fluviali, sia le piene urbane, sia le inondazioni costiere causate da mareggiate e crescita del livello marino. E mostra che, tra il 1985 e il 2015, l’estensione degli insediamenti umani – dai villaggi alle megalopoli – è aumentata enormemente: in trent’anni è cresciuta più dell’85 percento. Tuttavia, la occupazione delle aree esposte a maggiore pericolosità – quelle dove le peggiori inondazioni hanno tiranti idrici superiori a 150 centimetri – è aumentata del 122 percento, superando di gran lunga quella di aree al sicuro dalle inondazioni. Circa 36mila chilometri quadrati di terre emerse con nuovi insediamenti – ossia il 6 percento di tutto il territorio urbanizzato – rientrano nella categoria dell’altissima pericolosità alluvionale. Altri 76mila chilometri quadrati sono ad alta pericolosità, la fascia compresa tra 50 e 150 centimetri di tirante idrico.

Se la crescita della esposizione alluvionale è senz’altro significativa a livello mondiale, la regione dell’Asia orientale e del Pacifico è quella più esposta. Nel 2015, circa il 18 percento degli insediamenti in questa regione erano soggetti a inondazioni, la percentuale più alta a livello globale. Nord America e Africa sub-sahariana hanno invece l’esposizione minore, sono interessati meno del 5 percento dei nuovi insediamenti (vedi Figura).

La situazione cinese è forse quella più eclatante. In trent’anni, a partire dal 1985, l’estensione degli insediamenti in aree ad altissima pericolosità alluvionale è più che triplicata. Non è una novità assoluta, giacché il fondatore di un importante studio di architettura del paesaggio, Turenscape, aveva rilevato che dal 1980 al 2010 il 70 percento delle nuove urbanizzazioni cinesi erano state realizzate in pianure alluvionali o in zone ad alto rischio alluvionale. Una delle ragioni della scelta imprevidente era stata economica: i governi locali potevano acquistare terreni in zone alluvionali a prezzi assai minori di quelli richiesti per i terreni a rischio trascurabile. Turenscape aveva perciò sviluppato il concetto cinese di “città spugna” per mitigare la severità delle inondazioni urbane: nella città spugna le superfici cementificate vengono sostituite con aree verdi permeabili in grado di assorbire l’acqua. È qualcosa, ma non sempre basta.

A scala globale, inurbare le pianure alluvionali non è soltanto una scelta economica, ma un dettato della scarsità di terreni idonei. In molte aree, gran parte del territorio sicuro è già occupato: per i nuovi insediamenti si è costretti a usare aree che, in passato, erano state evitate con cura per via del rischio ben noto. In molti casi, però, aggredire le zone alluvionali può anche essere una scelta del tutto inconsapevole, laddove manca una valutazione della pericolosità alluvionale o le norme di pianificazione urbana sono inadeguate.

Se lo sviluppo della città trascura il rischio idraulico, i governi e nella pubblica opinione tradiscono la pur crescente consapevolezza della crisi climatica. La politica fatica a tradurre le belle parole in fatti concreti. La società gira la testa dall’altra parte, confidando nella buona stella. Più delle grida nazionali, sono i modelli locali di urbanizzazione a svolgere un ruolo fondamentale per ridurre l’esposizione al rischio delle persone e dei loro beni, delle industrie e delle infrastrutture. I sindaci e le autorità locali svolgono un ruolo cruciale nel declinare la risposta dell’umanità al clima che cambia. Per contro, sia la politica nazionale e sia quella locale spesso invocano il cambiamento climatico per giustificare disastri idrogeologici che sono l’esito di scelte urbanistiche scellerate, decisioni di politica territoriale che sarebbero state scellerate perfino all’epoca della Piccola Glaciazione Europea.

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