Bambini presenti assenti, attenti. “La versione di Cochi”, biografia di Aurelio Ponzoni (Baldini + Castoldi), in queste ore in libreria, è uno scrigno prezioso e imperdibile di gustosi aneddoti e tranche de vie di un artista poliedrico che con l’amico, compagno, sodale Renato Pozzetto tra gli anni sessanta e settanta ha pitturato di surreale comica follia il cabaret e la comicità italiana. Dagli esordi nei locali milanesi – L’oca d’oro, Cab 64, Derby – dove Cochi e Renato incrociano, tra gli altri, Gaber, Toffolo, Andreasi, Boldi, Teocoli, e pure un imberbe Franco Battiato; passando per la grande tv di Quelli della domenica, Il poeta e il contadino, Il buono e il cattivo, Canzonissima, e anche Su la testa! con Paolo Rossi nel 1992; fino al teatro e al cinema, e soprattutto alle immortali e surreali hit musicali (c’è poco da ridere, anzi molto): E la vita, la vita (in testa alle classifiche di vendita nel 1974), La gallina, Canzone intelligente, A me mi piace il mare, Lo sputtanamento.
Cochi e Renato bambini sfollati a Gemonio negli anni quaranta: tutto ebbe inizio da qui…
Durante la seconda guerra mondiale quando hanno iniziato a bombardare Milano, mio padre e il padre di Renato hanno portato le loro famiglie fuori città e siamo finiti in un paese a 15 chilometri da Varese. Lì abbiamo svernato fino al ’45. I nostri genitori erano già amici, le mie sorelle maggiori erano amiche dei fratelli maggiori di Renato. Eravamo destinati a incontrarci e stare insieme.
C’è mai stato un contrasto, uno scontro, uno scazzo con Pozzetto? Sembra sia sempre andato così tutto rose e fiori…
Mai successo. Tutto quello che abbiamo fatto insieme è stato frutto di un lavoro molto armonioso. Abbiamo sempre avuto un grande rispetto reciproco. Quello che facevamo era il risultato di una specie di gioco che avevamo intrapreso fin da ragazzini, divertendoci prima noi delle cose che facevano. Difficoltà che non abbiamo avuto nemmeno quando ci siamo separati formalmente (fine settanta ndr).
A me fa sbellicare il momento in cui con Enzo Jannacci componete il brano Silvano. Ne parla nel libro e c’è pure un filmato d’epoca dove davanti al leggio, togliete e aggiungete verbi assurdi e vi divertite come pazzi…
Enzo è stato il nostro compagno, sodale e produttore discografico fino a quando è campato. Quella registrazione era ciò che è successo mentre registravamo altre canzoni. Abbiamo improvvisato parole strampalate ma che avevano per noi un significato preciso. Evidentemente data la nostra mente un po’ fuori dagli schemi, un po’ da pazzi, come eravamo e siamo, era un gioco di frasi e parole libere che riguardava la musicalità delle parole stesse, una jam session su un testo musicale.
Nel libro c’è un grande scoop sul contenuto delle scatole di merda di Piero Manzoni, suo caro amico, come Lucio Fontana: contenevano marmellata!
È quello che ha sempre detto la sorella. Eravamo ragazzini, quando mi fece vedere la prima scatola, io lo prendevo per il culo. E lui: questa scatola la mando a Kruscev. Gliela mandò veramente. Poi mi prese per il culo a me perché di ritorno dall’Inghilterra avevo un gilet da caccia alla volpe.
Nella sua biografia torna spesso a raccontare episodi vissuti con Walter Chiari, un grande comico dimenticato…
Quando ebbe quel problema con la giustizia e venne messo in carcere per possesso di droga e di spaccio. Cosa non vera. Nessuno lo voleva più. Io e Renato e il dottor Puntoni, dirigente della Rai Milano, decidemmo di farlo venire ospite della prima trasmissione, Il Buono e il cattivo. Lui riapparve dopo quella triste vicenda. Era in possesso di quella sostanza ma non era sicuramente uno che la spacciava. Semmai poteva regalarla tanta era la sua generosità sconfinata con gli amici che avevano voglia di farsi una pippata. Poi con lui feci una lunga tournée teatrale e cementammo una bella amicizia.
Cosa fa ridere oggi Cochi Ponzoni?
La vita in certi momenti terribili ha anche un risvolto, magari involontario, ma comico, e questo mi fa ridere. Poi trovo molto divertenti amici con cui sono in sintonia come Aldo, Giovanni e Giacomo e Paolo Rossi.
Oggi si parla tanto di precariato, ma a lei e Pozzetto in Rai rinnovavano il contratto ogni settimana…
Non si fidavano di noi. Pensavano fossimo due alieni provenienti dallo spazio. Avevamo un linguaggio fuori dagli schemi. Di volta in volta i dirigenti Rai verificavano che piacevamo molto a quelli della nostra generazione. Le stesse cose succedevano a Paolo Villaggio, considerato un marziano anche lui in quel periodo. Dalla nostra parte avevamo intellettuali e personalità di spicco che difendevano la nostra comicità in tv. Gianni Agnelli disse che smetteva di giocare a golf per vedere Quelli della domenica. Influì molto sulla nostra permanenza in tv.
Il poeta e il contadino (1973) fu un titolo molto rappresentativo a livello socioculturale per una trasmissione Rai dell’epoca. Oggi non esistono più nemmeno poeti né contadini…
Ci metterebbero la camicia di forza!
Lei ha vissuto a Milano fino al ’79 poi è stato vent’anni a Roma e ora è di nuovo a Milano: che città ha ritrovato?
Dopo aver lasciato la Milano degli yuppies, la Milano da bere che non sopportavo più, si parlava solo di soldi, a Roma mi sono trovato benissimo. Quando Paolo Rossi nel ’92 mi volle per Su la testa! a Milano vissi in un albergo. Poi ho conosciuto la mia seconda moglie e tornato qui mi sono ritrovato a mio agio. Era tornata la città che mi piaceva del passato. Mio zio nel 1930 scrisse un libro su tutte le chiese di Milano. Mio nonno cantò Va’ pensiero ai funerali di Verdi. Ho radici profonde in questa città per cui ancora riesco a trovare angoli della Milano della mia infanzia.
Nei brani musicali che vi hanno reso celebri c’era sì una comicità surreale ma soprattutto l’aspetto coreografico…
Avevamo inventato dei passi da focomelici. Era necessario un segnale forte che rimanesse nell’immaginario di chi vedeva la nostra performance. Muovere la gamba in un modo assurdo rimase impresso. C’erano due coreografie: quella de La gallina con un passo che poi fecero i ballerini de La Scala e lo chiamarono “passo Cochi e Renato”; e quella di A me mi piace il mare che chiamavamo avanti e indré. Era la nostra firma.
Ricevette minacce da nostalgici fascisti per via di una canzone…
Nella sigla finale di Canzonissima, Renato appariva a torso nudo come Mussolini, io vestito da nazista e cantavamo la strofa di E la vita, la vita: “C’è chi un giorno ha fatto furore e non ha ancora cambiato colore”, c’era uno stacco e un gruppo di bambini ci guardava come per dire che cazzo volete? Per questo quando abitavo a Roma, a Vigna Clara, dei facinorosi fascisti mi hanno minacciato e tirato anche monetine.
La vostra era comicità di sinistra?
All’epoca facevamo le Feste dell’Unità. Io facevo dichiarazioni di voto su L’Unità. Io ero schierato. Renato un po’ meno di me.
Se le dicessi che era comicità nazionalpopolare?
Alla fine il nostro lavoro era rivoluzionario dal punto di vista del linguaggio e non era quello tradizionale dell’avanspettacolo. Non so, potrei definirlo politicamente di rottura. C’era difficoltà ad adeguarsi per chi non lo apprezzava. Ricordo un cumenda elegante e impomatato che apparve al bancone del bar del Derby e mi disse in modo aggressivo “senti io ho visto quel cavolo di cose che fate te il tuo amico, io sono un industriale con duemila operai son minga un pirla adesso devi spiegarmi cosa vogliono dire quelle stronzate lì sul palcoscenico”. E io: “Non lo neanch’io”. Spesso molti commendatori venivano con le loro donne: queste apprezzavano e se la ridevano come matte, ma loro non capivano un cazzo e gli giravano le balle.
Berlusconi le soffiò un palinsesto che aveva preparato per Rete4…
Con Sandro Parenzo e altri colleghi stavamo creando una programmazione per la giovanissima Rete4, ma arrivò lui e compì il furto che ancora persiste.
Lei vide ipnotizzare Veronica Lario, quando faceva l’attrice…
Non era ancora la signora Berlusconi. Fu il mio amico Edoardo Pecar, un ipnotizzatore incredibile. Mai visto nulla di simile. Ipnotizzò anche mia figlia, l’ho visto con i miei occhi, la fece regredire come fosse una bimba delle elementari. Magari ha ipnotizzato anche me e non me ne sono reso conto.
Gioco della torre: butterebbe la tv o il teatro?
La tv! Il teatro è eterno e non morirà mai.
Tra tv e cinema?
Butto sempre la tv.
A chi deve tutto per la sua carriera artistica?
Alla mia mamma che mi ha concesso un sacco di libertà come viaggiare a 15 anni fino in Danimarca. Per l’epoca non era affatto normale.