Nel generico calderone della Festa di Roma 2023 c’è un documentario che mostra il brillante talento (conosciuto ma spesso trascurato) del suo regista e nuova semplice diretta luce al soggetto raccontato. Si tratta di Jeff Koons – Un ritratto privato diretto da Pappi Corsicato. Intanto, in colpevole ritardo, segnaliamo che ci sono ancora 48 ore per andare a vederlo al cinema. Poi quello che preme esprimere in queste poche righe è che si tratta di un’opera esteticamente poliedrica, un po’ come i baloon dogs di Koons stesso, con quelle superfici levigate e riflettenti pronte a mostrarsi e inglobarti allo stesso tempo. Peraltro siamo al cospetto dell’artista contemporaneo più quotato sul mercato. E Corsicato gli si posa fiero ad un metro e mezzo per mezzi busti, diagonali da basso, e pedinamenti in fattoria tra fieno ed erba, rilevando e rivelando il cuore kitsch dell’artista con addosso un piumino da migliaia di dollari e un cappellino con il paraorecchie all’insù da mercatino di piazza.
La mistura tessile del girato affonda da subito nel found footage delle generazioni passate dei Koons periferici in Pennsylvania, poi si muove nella fattoria del nonno che l’artista ha riacquistato da adulto celebre e ricco, infine si avventura nella ricostruzione parallela dei primi vent’anni di mostre dove Koons si afferma a livello internazionale e intanto soffre le turbolenze dei propri rapporti sentimentali e soprattutto della presenza/assenza dei due figli avuti nelle su prime relazioni. Per un’oretta di documentario in Jeff Koons – Un ritratto privato si contemplano le linee narrative evolutive di un’epica familiare: la primogenita Shannon mai vista per vent’anni e improvvisamente ritrovata, Ludwig il figlio conteso con Cicciolina per il quale Koons dilapida una fortuna in dispute legali e viaggi in Europa. C’è qualcosa di eterno e tormentato in questa mano di carte del destino che Corsicato coglie con maestria fornendo al documentario un cuore pulsante, umanizzato, oltre le regole della didascalismo fronte macchina.
Una sorta di fonte di luce che trasla e illumina anche l’arte koonsiana che arriva potente, inaspettata, spiegata (anche per chi come il sottoscritto non ne va pazzo) con delicata reverenza verso il fondo del film. “L’arte elimina i pregiudizi. Mostra come noi siamo perfetti nel presente”, spiega Koons come se dal suo occhio scivolasse un rigagnolo scuro di matita colante. Eccoli i piccoli oggetti da soprammobile (“un valoe affettivo alla Rosabella di Welles”) amplificati come giganti statue della contemporaneità, così come uccellini, gatti e cani riempiti di fiori e dilatati in musei e piazze. O ancora la genesi di Play-doh, dialogo inconscio con l’arte povera, che non è nient’altro che un gioco col pongo del piccolo Ludwig in una stanza di un hotel in via Veneto allargato a dimensioni consone alla raffinata visionarietà dell’artista. Le opere d’arte di Koons assumono così una profondità di lettura che la frontalità dell’osservazione museale non consentiva, che cataloghi e monografie non riuscivano a svellere tutti presi dalla sfregola del valore economico da capogiro. Il tutto cucito attorno ad un violoncello ieratico di Angelo Maria Santini (su brani di Enrico Gabrielli) che plasma un’ulteriore chiave percettiva dell’umanità in mostra.