Tre giorni dopo il pogrom del 7 ottobre un articolo del Corriere racconta le manifestazioni pro-Hamas che hanno ‘colorato’ alcune piazze romane: “La controffensiva della resistenza palestinese di questi giorni è la naturale e legittima risposta alla barbara occupazione pluridecennale dei territori palestinesi da parte di Israele”, spiegano gli attivisti di Osa (Opposizione studentesca d’alternativa) un’organizzazione di studenti medi che si definiscono ‘anticapitalisti, antifascisti, anti-sessisti e internazionalisti’ che così leggono il massacro: “La prepotenza di Israele, legittimata a livello internazionale dal campo occidentale, ha trovato in questi giorni una risposta che mette paura non solo al regime sionista ma anche ai governanti nostrani, che rispondo con la repressione interna a chi chiede la libertà e la dignità per il popolo palestinese”.

L’equivoco fra un “atto di genocidio”, come quello compiuto bruciando intere famiglie nei kibbuz al confine con Gaza, e gli atti di violenza che accompagnano qualsiasi guerra, è un fenomeno di vecchia data e forse il primo a capirlo era stato Primo Levi, quando spiegava che Auschwitz sfugge a ogni logica e che quindi risulta impossibile cercare una spiegazione che rischierebbe di dare una giustificazione a quanti sono stati gli esecutori di una tale bestialità. “Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, – scriveva – non è né un episodio né una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile, ma è in noi, ha una sua razionalità, la ‘comprendiamo’. Ma nell’odio nazista non c’è una razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori e oltre il fascismo stesso… Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.

Questo discorso oggi è più attuale che mai perché aiuta a capire la specificità di Hamas e del suo progetto di sterminio, cioè qualcosa che va oltre la lotta per l’indipendenza e il ricorso al terrborismo, un’arma che, sulla stessa “Terra Promessa”, ha scandito molti percorsi di “liberazione nazionale”, da Begin ad Arafat. Trovo questa riflessione in un libro drammaticamente attuale: Auschwitz non finisce mai, la memoria della Shoah e i nuovi genocidi di Gabriele Nissim, utilissimo non solo per leggere quello che sta accadendo in Israele, ma anche sul altri fronti.

Se il pogrom del 7 ottobre ha fatto riemergere la parola ‘Olocausto’, poche settimane prima c’era stato un evento che non poteva non rievocare il primo genocidio del ‘900: quello degli Armeni. Dopo 30 anni di scontri con l’esercito dell’Azerbaigian, gli abitanti armeni del Nagorno-Karabach, una minoranza cristiana che viveva lì da 2500 anni e che era sopravvissuta al genocidio del 15-18, hanno dovuto lasciare le loro case e riparare come profughi in Armenia. Il paradosso è che la vittoria militare che ha permesso la pulizia etnica è stata portata a termine dall’Azerbaigian grazie alla collaborazione di Israele.

“Israele – scrive Nissim – impegnata nel mondo per il ricordo della Shoah contro l’ondata di negazionisti che in vario modo ne mettevano in dubbio l’enormità, non aveva mai riconosciuto il genocidio armeno. Nel Paese ne parlavano solo pochi intellettuali… Durante un viaggio in Turchia, quando ancora i rapporti tra i due Stati non si erano deteriorati, il ministro degli Esteri Shimon Peres dichiarò ai suoi interlocutori: ‘Respingiamo i tentativi di creare un parallelismo fra la Shoah e il genocidio armeno. Non è mai accaduto nulla di simile alla Shoah. Gli armeni hanno vissuto una tragedia, ma non un genocidio”. La stessa ambiguità sul piano delle relazioni internazionali, racconta Nissim, si presentò durante la pulizia etnica in Bosnia e in Kosovo, quando il governo israeliano non prese le distanze dalla Serbia che era stata artefice di quei massacri.

Il saggio non solo spiega come è nata l’ideologia dell’ “Unicità della Shoah”, ma racconta anche tutti i tentativi fatti per superarla. Fra gli altri va segnalato quello di Avraham Burg, il presidente emerito del Parlamento israeliano che ammonì i suoi concittadini dicendo: “Non dobbiamo restare sempre ripiegati in noi stessi. Non dobbiamo continuare a ripetere: gli odi non ci interessano, non ci importa quello che succede agli altri, non ci importa quello che viene fatto alle altre minoranze, solo l’odio contro di noi è quello vero, tutti gli altri non sono odi veri».

Oggi che Yad Vashem, il Memoriale della Shoah, viene usato dalla destra postfascista italiana per rifarsi l’immagine (senza peraltro rinnegare – neppure lì! – l’uomo che varò le leggi razziali ) il libro rilancia un’utopia rimasta purtroppo nei cassetti: “Trasformare Yad Vashem in un luogo della memoria di tutti i crimini dell’umanità, dove, accanto alla memoria ebraica della Shoah… (con) un’ala armena, una sezione serba, una mostra per il Ruanda e la Namibia, una per gli indiani d’America”.

Mercoledi 25 ottobre il libro verrà presentato dall’autore a Finale Ligure nel corso dell’incontro “Prevenire i genocidi”.

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