“Un’altra misura cui tengo molto è l’introduzione del principio ‘più assumi meno paghi‘. Per le imprese introduciamo una super deduzione del costo lavoro per chi assume a tempo indeterminato”. Giorgia Meloni, durante la conferenza stampa di lunedì scorso, aveva presentato così il nuovo sgravio per le assunzioni a tempo indeterminato previsto dal decreto di revisione dell’Irpef e dell’Ires: una maggiorazione del 20% del costo deducibile che sale al 30% se gli assunti fanno parte di categorie “svantaggiate“. Quello che la premier ha omesso di dire è che il governo, per quell’incentivo, non ha stanziato un euro. Anzi, ci ha guadagnato quasi 3,5 miliardi sui conti del 2025 e 2,8 dal 2026 in avanti. Come è possibile? Perché, mentre con una mano offriva la decontribuzione potenziata, con l’altra ha abolito dal 2024 l’Aiuto alla crescita economica (Ace) varato nel 2011 dal governo Monti, un’agevolazione fiscale che incentiva il reinvestimento degli utili in azienda. L’effetto netto è un aumento delle imposte sul sistema produttivo, non il contrario come ha dato a intendere Meloni.
L’Ace era nata per affrontare uno degli annosi punti deboli del sistema produttivo italiano rispetto a quelli dei competitor europei: l’eccesso di finanziamento a debito invece che con capitale di rischio. Per farlo, consente di dedurre dal reddito – riducendo l’imponibile – l’ipotetico rendimento del capitale utilizzato per rafforzare la struttura patrimoniale dell’azienda. Della misura hanno beneficiato, stando alle dichiarazioni dei redditi 2021, 328mila società di capitali che hanno goduto di deduzioni per un totale di 19,1 miliardi (si arriva a oltre 19,2 aggiungendo anche le persone fisiche). Il 25% dell’Ace va ad attività manifatturiere, il 35% a quelle finanziarie e assicurative. Tra le aziende con oltre 5 milioni di euro di ricavi oltre il 60% ha utilizzato l’Ace. Che, secondo un paper della direzione generale fiscalità della Commissione Ue, firmato dall’economista di Bankitalia Ernesto Zangari, è da considerare una buona pratica per quanto riguarda la “tenuta” rispetto a possibili abusi e strategie di elusione fiscale.
Ora – all’articolo 5 del decreto Irpef-Ires – arriva la sorpresa, inattesa da parte di un governo di destra che agli imprenditori ha sempre prospettato tagli strutturali delle tasse. Un precedente a ben guardare, c’è: bisogna tornare all’ultimo esecutivo con la Lega tra i soci forti. La legge di Bilancio per il 2019 dei gialloverdi (Conte 1) aveva abolito l’Ace sostituendola con una mini-Ires con aliquota ridotta dal 24 al 15% sugli utili messi a riserva e impiegati per nuove assunzioni o investimenti. Decisione, però, mai diventata operativa perché l’anno successivo, durante la recessione da Covid, il Conte 2 ha fatto marcia indietro ripristinando l’Ace e anzi potenziandola per il 2021: solo per quell’anno il rendimento nozionale sugli aumenti di capitale fino a 5 milioni è stato portato al 15%. La delega fiscale firmata dal viceministro Maurizio Leo ha recuperato lo schema della doppia aliquota, ma il decreto attuativo non rispetta nemmeno su questo le promesse fatte nei mesi scorsi perché si limita, appunto, a prevedere una deduzione maggiorata.
Gli effetti finanziari li riassume la relazione tecnica del provvedimento approvato una settimana fa. “L’abrogazione dell’Ace comporta un aumento dell’imponibile Ires”, spiega il ministero dell’Economia, “sul quale può trovare maggiore capienza l’importo della maggiorazione del costo del lavoro incrementale”. Ovvero: visto che pagheranno più imposte, imprese e professionisti potranno sfruttare un po’ di più la deduzione relativa al costo del lavoro per i neoassunti nel 2024. Un beneficio che però andrà solo a chi ha un’attività già florida che gli consente di programmare aumenti dell’organico. In generale, nel 2025 la platea che godeva dell’Ace pagherà nel complesso 4,8 miliardi di tasse in più mentre le maggiorazioni del 20 e 30% dei costi del lavoro deducibili porteranno un vantaggio di soli 1,3 miliardi. Con un guadagno netto per lo Stato di 3,48 miliardi.