E’ attesa per il prossimo 13 novembre l’udienza per il conferimento dell’incarico al perito che dovrà stabilire se Alessia Pifferi era pienamente in grado di intendere e volere nel momento in cui decise di abbandonare sola a casa per sei giorni la figlioletta Diana di soli 18 mesi cagionandone la morte per inedia e disidratazione.
La corte di Assise di Milano ha infatti stabilito che sarà una perizia psichiatrica a determinare lo stato di lucidità e l’eventuale pericolosità sociale della trentasettenne accusata di omicidio volontario aggravato in un processo che vede contrapposti, da un lato, i pubblici ministeri Francesco De Tommasi e Rosaria Stagnaro insieme alla madre e alla sorella della Pifferi costituitesi parti civili e assistite dall’avvocato Emanuele De Mitri e, dall’altro lato, il legale difensore dell’imputata Alessia Pontenani con i suoi consulenti e gli psicologi di San Vittore che ritengono la donna affetta da un disturbo cognitivo con un quoziente intellettivo di una bimba di sette anni. In altre parole, per la difesa, Alessia Pifferi sarebbe vittima di un ritardo mentale tale da non essere in grado di badare ad una bambina che versava in un grave stato di malnutrizione, non era mai stata visitata da un pediatra né vaccinata ma proprio per questo, secondo l’avvocato Pontenani, l’accusa di omicidio volontario aggravato andrebbe a decadere a favore di un capo di imputazione molto meno grave ovvero l’abbandono di minore con morte in conseguenza di altro reato.
A cozzare drasticamente con un deficit cognitivo però è un castello di bugie costruito ad arte dalla trentasettenne che prima e dopo il tragico evento del ritrovamento del corpo esanime della piccola Diana, sembra aver messo in campo una lucida condotta tesa a mistificare la realtà e manipolare i propri interlocutori per fornire una versione dei fatti a proprio favore.
Una testimonianza fondamentale in questo senso è stata resa dalla soccorritrice del 118 Michela Leva che ha fornito la propria ricostruzione di quel drammatico 22 luglio 2022 sia durante la sua deposizione in tribunale sia in una recente intervista rilasciata alla trasmissione Quarto Grado. L’operatrice sanitaria ha raccontato che Alessia Pifferi, dopo aver rinvenuto il cadavere della propria creatura e dopo aver chiamato i soccorsi, ha addossato la colpa dell’abbandono della piccola ad una baby sitter di nome Jasmine che avrebbe lasciato l’abitazione senza avvertirla dimenticandosi persino la porta aperta.
Quando Michela Leva si è offerta di chiamare la fantomatica baby sitter però ha appurato che nella rubrica della Pifferi non esisteva alcuna baby sitter di nome Jasmine così come non esistevano le chiamate e le videochiamate che la donna le diceva aver effettuato fino al giorno prima per accertarsi delle buone condizioni della figlioletta. La soccorritrice e un suo collega hanno altresì constatato che la povera bambina ormai si trovava in uno stato che ne indicava il sopravvenuto decesso con gli arti superiori e inferiori in stato di necrosi e altri drammatici particolari, riferiti in aula, che hanno indotto il collega della Leva a coprire il corpicino con una camicia per restituire un minimo di dignità alla povera vittima innocente.
Dal racconto della soccorritrice si evincerebbe anche un tentativo della Pifferi di ripulire la scena facendo sparire il lenzuolo della culla in cui si trovava Diana e lavando il corpicino della piccola che è stato trovato completamente bagnato. L’operatrice del 118 riferisce inoltre che Alessia Pifferi, nel fornire la sua versione artefatta degli avvenimenti, non si è mai mostrata turbata e non ha mai versato neppure una lacrima fino al momento in cui ha capito che stavano arrivando le forze dell’ordine per condurla in arresto.
L’ennesima bugia, insieme a quelle raccontate alla madre, alla sorella e alle amiche alle quali aveva data per certa la presenza della piccola sempre al suo fianco e l’imminente celebrazione di un battesimo mai avvenuta per poter ottenere denaro senza contare le scuse per non pagare l’autista che la accompagnava avanti e indietro da Leffe dove si trovava l’abitazione del compagno, abitazione verso la quale era pronta a tornare, senza Diana, lo stesso pomeriggio di quel maledetto 22 luglio. Bugie raccontate con una lucidità e una determinazione che – a mio avviso – sono difficilmente compatibili con una diagnosi di ritardo mentale e deficit cognitivo.