Cinema

Anatomia di una caduta, il film Palma d’oro tra Bergman e courtroom drama

Più si percorre la strada di un algido irradiante realismo e più la verità sul fatto raccontato si allontana e dissolve. Sublime e paradossale cortocircuito percettivo quello che prova lo spettatore di Anatomia di una caduta, film diretto dalla regista francese Justine Triet, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes e in queste ore nelle sale italiane. Courtroom drama quasi per inerzia, scandaglio bergmaniano di sponda e sottotraccia, vaghe sembianze da thriller sofisticato con soluzione che, appunto, non arriva anche se sembra arrivare.

Anatomia di una caduta merita tutta l’attenzione e l’attesa che decide di chiedere allo spettatore fin dai primi frammenti di racconto, quando viene cucita la prima verità possibile sui fatti accaduti. Nel salotto di uno chalet delle Alpi innevate francesi, l’affermata scrittrice Sandra (Sandra Huller) è sottoposta ad un’intervista da una laureanda in letteratura. Al primo piano il figlio 11enne ipovedente Daniel cerca di fare il bagno al cane Snoop. Nel sottotetto il marito Samuel fa partire lo stereo a mille e in loop piazza P.I.M.P. di 50 Cent. Un’azione di disturbo, apparentemente tollerata da Sandra, fino a quando l’intervista si interrompe e viene rimandata a data e luogo da destinarsi. Il battito di uno stacco di montaggio e Daniel torna dalla passeggiata con Snoop sbattendo letteralmente contro il cadavere del padre, pancia all’aria davanti alla porta di casa, sbrego mortale sulla tempia, traiettoria di caduta dall’alto dello chalet verso il basso. Inevitabile che la prima sospettata, e subito incriminata di omicidio, sia proprio Sandra.

La aiuterà un avvocato amico che è elegantemente innamorato di lei, nonché la titubanza testimoniale del figlio. Sgomberato il campo da ogni nuance melodrammatica, Anatomia di una caduta si pone, di primo acchito, come cinema di lucida, dura, inequivocabile detection, di accurata ricostruzione di non visti e non detti attraverso gli strati e gli stadi processuali. Un graduale accumulo di informazioni dove gli screzi e le liti coniugali, lo stato di sofferenza psichica di Samuel, i tradimenti e la bisessualità di Sandra, ma soprattutto la disparità di status che si viene a creare nella coppia (lei scrittrice di successo, lui romanziere fallito) sbatte contro al muro dell’impossibilità di definire chiaramente la verità.

Triet armonizza con inesausta puntualità diverse fonti di sguardo dall’inappuntabile realismo (le videocamere della giudiziaria, la presenza delle tv, il grandangolo in aula che sembra una soggettiva dello spettatore presente) come di suono (l’improvvisa e sorprendente apparizione dei file audio dallo smartphone di Samuel, la voce di Daniel che nella sua testimonianza sostituisce in un flashback la voce del padre in primo piano) per obbligarci al riverbero continuo dell’impalpabilità del vero. Più pubblici ministeri, avvocati difensori, protagonisti con i loro sicuri interventi scavano in profondità, mostrano ampie tracce del passato che hanno fatto da lungo prologo quotidiano e intimo alla fatale caduta, più la verità sulla morte di Samuel sfugge, diventa soggettiva, addirittura ignota. Drammaturgicamente e processualmente parlando siamo di fronte a spuri collegamenti intuitivi, supposizioni fine a se stesse, ipotesi, affermazioni come “siamo costretti ad interpretare”. E il verdetto finale diventa figlio, e qui i brividi corrono davvero lungo la schiena, di una scelta di parte precisa e non di una soluzione oggettiva finalmente ritrovata. Al netto di una chiara prevaricazione della giustizia inquirente pronta a provare una colpevolezza forzando continuamente la mano (il dato è messo in scena in maniera evidente), Anatomia di una caduta sembra figlio di un cinema che vuole scuotere con cupa e decisa grazia il senso di colpa dell’animo umano, le responsabilità familiari e sociali, nonché la difficile digestione del fatto che a condurre il gioco del successo professionale, e pubblico, sia una donna invece del sempiterno uomo.

Triet controlla e cesella l’opera nei dettagli più infinitesimali, da quel mezzo secondo in più sul viso di Daniel al seguire quel mezzo giro attorno al bancone dell’accusa da parte del pm, dalla sfocatura delle comparse in primo piano mentre indossano le cuffiette per la traduzione simultanea indossate in aula allo svuotamento di fronzoli nell’abbigliamento dei protagonisti. Un modo anche questo per sottolineare l’assoluto portento della Huller, attrice tedesca qui in versione bilingue franco-inglese, che prorompe in una scala impossibile di microespressioni del viso da far impallidire qualunque collega anche più anziana di lei. Distribuisce Teodora.