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Che cos’è l’algospeak, il linguaggio creativo per evitare la censura sui social. L’esperta di etica tech: “Forma di resistenza digitale”

Una pannocchia, un asterisco e un numero al posto di una lettera per dire quasi la stessa cosa. Si chiama “algospeak” ed è il linguaggio utilizzato dagli utenti social per circumnavigare il controllo di contenuti considerati sensibili sulle piattaforme, tornato in voga sul web all’indomani della guerra tra Israele e Hamas. Nato dalla crasi tra le parole inglesi algorithm e speak, algoritmo e parlata, l’algospeak è una forma di comunicazione digitale fatta di emoji, parole scritte sbagliate o graficamente alterate e numeri, creato dagli utenti stessi per commentare tematiche al di fuori delle linee guida delle piattaforme.

Succede soprattutto su Instagram, Facebook e Tik Tok, dove le big tech che hanno fondato il loro successo sulla produzione spontanea di contenuti da parte degli utenti si trovano oggi a moderarli per assicurarsi di mantenere un ambiente virtuale “accogliente” per tutti. Il fenomeno esiste da tempo su spazi digitali in lingua inglese per riferimenti all’ambito sessuale, dalla tanto detestata melanzana alla pannocchia come riferimento al porno (dall’assonanza corn-porn), ma anche in cinese, dove le assonanze tra parole sono spesso utilizzate per evitare censura e restrizioni imposte dal governo, e si è poi gradualmente esteso fino alla sfera in lingua italiana. Ecco così che video e immagini comparse nelle ultime settimane nella bolla digitale italiana si sono riempite di diciture come “Isr43le” e “H**as” per parlare di Israele e Hamas, ma anche emoji di violini, dall’assonanza violino-violenza.

“È una forma di resistenza digitale”, dice a ilfattoquotidiano.it Diletta Huyskes, ricercatrice nel campo dell’etica delle tecnologie e dell’intelligenza artificiale e fondatrice dell’agenzia di valutazione etica digitale Immanence, facendo riferimento alle migliaia di utenti che in questi giorni stanno commentando il conflitto in Medio oriente. “Nel caso della guerra in Israele non è tanto il riferimento a morti e uccisioni a infastidire l’algoritmo, ma il conflitto in sé, perché si tratta sicuramente di una cosa altamente politicizzata che le piattaforme hanno deciso di controllare a livello informativo e mediatico”, continua. Tesi supportata dai molti profili hanno denunciato l’oscuramento dei loro contenuti su Instagram, accusando le big tech di censurare i contenuti pro-Palestina e di dare loro meno visibilità secondo il principio del cosiddetto “shadowbanning“, vale a dire un oscuramento selettivo.

Le linee guida di Meta per esempio, società proprietaria di Instagram e Facebook, limitano ogni linguaggio che “sostiene ed elogia atti di terrorismo, la criminalità organizzata o i gruppi che incitano all’odio”. La violenza esplicita non è consentita sulle piattaforme, che si riservano il diritto di “rimuovere video o immagini esplicitamente violento”, specificando che la pubblicazione di contenuti di questo tipo è consentita “se riguarda eventi importanti e rilevanti con l’obiettivo di condannare, sensibilizzare o informare”. La scrematura è affidata quindi in parte all’algoritmo stesso, che sulla base di parole chiave elimina o più semplicemente rende meno visibili i contenuti considerati a rischio. Un secondo filtro è invece di competenza di figure professionali dedicate alla selezione dei contenuti. Meta ne conta oltre 40mila interne e fa poi affidamento ad agenzie terze dedicate alla moderazione della sfera online. Un dettaglio non trascurabile, secondo Huyskes, perché sensibilizza su una “nuova forma di schiavitù” del settore tecnologico, che vede migliaia di moderatori costantemente esposti a contenuti dannosi per professione.

Sulle big tech pesa anche l’introduzione del Digital service act, il nuovo regolamento dell’Unione europea che punta a creare un ambiente digitale più equo, trasparente, affidabile e sicuro. “La normativa appare incompleta“, sostiene la ricercatrice, perché “individua che ci sono rischi sistemici legati alla diffusione di contenuti legati a queste situazioni, ma non specifica quali sono esattamente questi rischi”. In questo contesto, l’algospeak è “il primo metodo per hackerare questo sistema”, sostiene ancora Huyskes, avvertendo che si tratta di “un processo estremamente fantasioso e creativo che difficilmente le piattaforme riusciranno ad arginare nel completo, perché bisognerebbe spiegare all’algoritmo come aggirare le nuove forme dell’algospeak”. Una continua rincorsa all’ultimo neologismo digitale dove l’algoritmo macina-dati delle piattaforme social si scontra con l’innovazione linguistica degli utenti.