di Tito Borsa
In questi giorni si stanno scrivendo analisi su analisi sul conflitto tra Israele e Palestina ma c’è un importante fattore che tende a sfuggire. Hamas e il suo successo sono un prodotto del colonialismo occidentale. L’adesione a gruppi violenti e terroristici è direttamente proporzionale al desiderio di rivalsa nei confronti di presunti o effettivi dominatori. E la lotta al terrorismo non è una guerra tradizionale. Basti pensare al disastro che hanno causato gli Stati Uniti invadendo l’Afghanistan dopo l’11 settembre creando così un desiderio di vendetta che poi ha avuto ripercussioni in tutto l’Occidente.
Bibi Netanyahu nel 2019 sosteneva che Hamas andasse foraggiato in chiave anti-palestinese, secondo l’antico adagio del “divide et impera”. Più protagonisti ci sono in Palestina, più facile sarà per Israele dominarla, soprattutto se questi protagonisti vanno in direzioni opposte. E ora, dopo il criminale attacco del 7 ottobre, forse qualcuno dovrebbe chiedere conto a Netanyahu del suo operato.
Colpendo con inaudita violenza la striscia di Gaza, in qualche modo Israele sta facendo un favore ad Hamas. Un gruppo terroristico non ha una sede e morto un leader se ne fa un altro. Esacerbare il conflitto significa rafforzare il desiderio di vendetta. Come disse Giulio Andreotti molti anni fa, chiunque, dopo cinquant’anni in un campo di concentramento, diventerebbe un terrorista.
Sono consapevole del fatto che Israele stia agendo sulla scia del trauma subito il 7 ottobre scorso, ma la comunità internazionale ha il privilegio di non essere parte in causa e questo dovrebbe portare a uno sguardo più razionale. È quello che incredibilmente sta facendo Joe Biden, che ha ammonito Israele ricordando il disastro degli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
La grande stampa italiana, invece, tende a trattare il conflitto come una partita di calcio. È giusto stare dalla parte di Israele, mentre se ricordi che c’è il popolo palestinese che da decenni vive in una condizione di dominazione e di sottomissione, allora stai dalla parte di Hamas. Come se ci fosse un’assurda identità tra un intero popolo, composto in larga parte da minori, e un gruppo terroristico che trae nutrimento dall’esacerbarsi di un conflitto.
A Stasera Italia l’ex ambasciatore israeliano Dror Eyda ha pronunciato parole gravissime: “C’è uno scopo, distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”. E Il Tempo titola “L’ex ambasciatore di Israele smaschera chi giustifica Hamas”, mentre Eyda non ha fatto altro che alimentare, colpevolmente, l’odio verso un intero popolo.
È un gioco al massacro: come pensate che si senta un giovane palestinese nato e cresciuto sotto le bombe? Che sentimenti pensate che nutra verso Israele e verso l’Occidente? A meno che non sia qualcosa di simile a un santo, è abbastanza ovvio che la continua sopraffazione subita accresca in lui un desiderio di vendetta che può sfociare nell’adesione a un’organizzazione terroristica.
La comunità internazionale dovrebbe puntare a migliorare le condizioni di vita del popolo palestinese, dovrebbe muoversi affinché decenni di dominazione colonialista cessino il prima possibile. E la stampa, cane da guardia della democrazia, dovrebbe andare nella stessa direzione.
La realpolitik consiste nel mettere da parte i torti subiti da ambo le parti per cercare una soluzione per il futuro. E per farlo bisogna avere una razionalità e una lungimiranza che purtroppo sembrano latitare in questo periodo. Razionalità e lungimiranza che nel 1993 portarono agli Accordi di Oslo tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, il quale pagò quella mossa con la sua stessa vita, venendo ucciso dall’estremista della destra radicale Ygal Amir.
Tutte queste cose vengono escluse dal dibattito sui grandi giornali italiani. Articoli scritti da analisti che fomentano una guerra che loro non combatteranno mai e della quale, grazie a Dio, non subiranno mai le conseguenze. Loro sono comodi nei loro salotti, mentre in Medio Oriente la gente muore da anni.