Sarà perché per tutti i miei anni da scolara ho percorso il tragitto che dalla fermata della metro Lucio Sestio portava a casa di entrambe le mie nonne. Sarà perché quello spicchio di mondo che dal caos della Tuscolana (quella pre-pista ciclabile e pre-parcheggio a tagliarla in due) porta alla quiete di via Lemonia, ha da sempre covato l’idea di un luogo dimidiato, in cui tutto poteva trovare spazio, convivere e stare bene: palazzine ricche ed eleganti affacciate su un parco tra i più belli e poi case popolari oggetto di studio di architetti che hanno saputo coniugare prima ancora che il concetto green andasse di moda il verde dei cortili interni con l’idea di mondi condivisi, quelli dentro alle case e quelli fuori dalla proprietà. Già a guardarla allora questa porzione di Roma faceva intravedere una visione che non tutti i quartieri hanno avuto e che molti non avranno più. Altro che centralità.
Sarà per questo che non credo sia un caso che qui sia nata Lucha y Siesta la casa delle donne e dei bambini vittime di violenza. In una periferia che oggi è la scommessa vinta nel Dopoguerra da pionieri visionari che nel nulla che si apriva dopo gli archi del Mandrione e la discesa del Quadrano avevano saputo vedere (e puntare) su un bello che non c’era ancora ma che sarebbe arrivato. Una storia che si ripete, se questa casa delle donne, che ha i connotati di una provvidenza laica e senza confini è arrivata a portare speranza in uno spazio lasciato libero da un bene pubblico abbandonato e in disuso, un ex immobile dell’Atac senza alcuna destinazione fino all’acquisizione del bene da parte della precedente giunta regionale. Letteralmente “colmando un vuoto che si è fatto pieno ” come hanno sottolineato le attiviste: pieno di vita, di speranze, di possibilità. E che ora, dopo 15 anni, rischia di chiudere perché la Regione Lazio, a guida Francesco Rocca, ha pensato bene di revocare la convenzione e di indire un nuovo bando. Una trovata semplicemente inspiegabile se non in una logica immobiliaristica e incoerente con le politiche di contrasto alla violenza di genere in un paese che fa parte del G7, che vede uccidere una donna ogni tre giorni, dove le denunce restano impigliate negli scogli della burocrazia più miope ma nel quale il 25 novembre, giorno ufficiale della violenza di genere, non si lesinano interventi o iniziative edificanti.
Soprattutto, in un paese che in attesa del passaggio al Senato, ha visto il via libera unanime della Camera al disegno di legge contro la violenza di genere proposto dal governo Meloni.
Percorro quella stessa strada calpestata centinaia e centinaia di volte e mi fermo davanti a un cancello che rischia di chiudere per sempre. Quando risalivo dalla Metro e ci passavo davanti tutti i giorni era anonimo e incolore, adesso ha invece i toni e l’entusiasmo dell’ingresso a una comunità. Si respira l’impegno, la solidarietà, la lungimiranza di un movimento che dal 2008 si è fatto presenza e poi punto di riferimento sul territorio, accogliendo e tutelando chi ha rischiato di non avere un futuro. E che nel 2021 ha vinto la sua prima grande scommessa: un protocollo della Regione ha garantito l’esistenza della casa.
Lucha y Siesta si è consolidata come rifugio contro la violenza sessuale, domestica, ed economica. Un presidio che ha accolto e tutelato mogli, compagne, fidanzate il cui unico bagaglio è il coraggio avuto nel fuggire da aguzzini e persecutori senza avere un posto in cui rifugiarsi tranne Lucha, che così si è fatta culla, riparo. Si è fatta nucleo, senza etichette e senza slogan. Si è fatta famiglia, anzi, si è comportata da famiglia prima ancora che di famiglia si parlasse e straparlasse. I figli non li ha avuti, li ha accolti (tanti). Li ha fatti crescere, un tetto e garanzie. Poche chiacchiere, molti fatti.
Mi guardo intorno e vedo alberi piantumati al centro di aiuole che oggi dividono il traffico, marciapiedi più larghi. Il miglioramento si annusa davvero e no, non può essere un caso che Lucha sia sorta qui e che con il suo operato abbia apportato il bello che ancora non c’era. Pensare che possa non esserci più da un giorno all’altro è un brutto sogno o una mala gestio che un giorno verrà valutata.
Ripensavo a tutto questo mentre le attiviste di Lucha y Siesta, le loro meravigliose maschere blu gialle e nere disegnate e poi cucite una a una, si univano sul palco del cinema Avorio, nel quartiere romano del Pigneto. Uno spazio che le organizzatrici di Inquiete, il festival delle scrittrici che dal 2017 fa dialogare scrittura e impegno civile, hanno riservato a Lucha per sensibilizzare e far sì che i riflettori restino accesi su quello che rischia di diventare, se la delibera che la mette a rischio, slittata finora solo per modifiche tecniche, dovesse invece venire applicata.
Se il bello si trasporta non lo so, ma era un bel silenzio quello che è sceso in sala per cogliere ogni singola parola di quelle che con voce rotta tutte le attiviste e le promotrici di Lucha hanno pronunciato, passandosi il microfono e le emozioni. Tuoni prima della tempesta, scandiva lo slogan al centro del palco. Un messaggio, un invito, un incitamento. Non lo so.
Di certo c’è che a un certo punto tutti, nessuno escluso, si sono ritrovati a scandire il tempo di un appello condiviso e si è avvertito il senso di comunità. Una scossa elettrica che da un quartiere si è trasferito a un altro per un messaggio che non è negoziabile: Lucha y Siesta, il bello che non c’era, deve continuare a esistere. Perché la sua (r)esistenza ci riguarda.