Per sette anni la Regione Veneto ha lasciato in sospeso, “per ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria”, l’effettuazione dell’indagine epidemiologica per valutare gli effetti sulla popolazione delle province di Vicenza, Padova e Verona, interessate all’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche. L’ammissione è venuta dall’assessora Manuela Lanzarin, dopo che la giunta regionale di Luca Zaia è stata sollecitata per mesi a dare una spiegazione dai partiti di opposizione, dalle Mamme No Pfas e dai movimenti impegnati nella tutela ambientale. Una questione di costi, quindi, ha impedito di dar corso allo studio per il quale era già pronta una convenzione con l’Istituto Superiore di Sanità.
I fatti risalgono al 2017, ma sono emersi soltanto a giugno, a Vicenza, durante un’udienza del processo per disastro ambientale a carico dei dirigenti della Miteni di Trissino, l’azienda considerata la causa dei versamenti dei Pfas nella falda idrica. A parlarne era stato il dottor Pietro Comba, dirigente in pensione di Iss, che aveva ricostruito il lavoro svolto all’epoca con i tecnici della Regione per porre le basi dello studio epidemiologico. Si trattava di un’occasione unica, su una popolazione di decine di migliaia di persone con il Pfas nel sangue, per accertare eventuali correlazioni con i tumori. Comba aveva detto che non se ne fece nulla, non per ragioni tecniche, ma per possibili decisioni politiche.
Adesso se ne ha conferma nella risposta all’interrogazione di Cristina Guarda, di Europa Verde, che ha chiesto “perché la Regione non abbia dato attuazione ad almeno tre piani di monitoraggio, nonostante vi fosse una delibera di giunta risalente al 2016”. L’assessore ha spiegato: “Tra gli obiettivi prioritari dello studio c’era la verifica delle ipotesi di associazione tra l’esposizione a Pfas e specifiche patologie e analisi della forza delle associazioni tramite stima del rischio. Va precisato che tale studio, come qualsiasi studio epidemiologico, non è uno strumento di sanità pubblica che possa garantire la tutela della salute e della popolazione esposta”. Poi la conferma: “L’iter di approvazione della bozza di accordo tra Regione Veneto e Iss sulla realizzazione dello studio fu a suo tempo sospeso in ragione di approfondimenti di natura economico-finanziaria”. Una semplice questione di costi, in un bilancio regionale che destina alla sanità circa 10 miliardi di euro all’anno.
L’assessore ha cercato di giustificarsi: “Negli anni a seguire le attività previste nel cronoprogramma dello studio sono state portate avanti dalla Regione Veneto e realizzate con diverse collaborazioni tra le quali quelle con Iss. Ulteriori valutazioni verranno condotte in collaborazione con Iss nell’ottica di trarre elementi utili per la valutazione di queste sostanze emergenti”. Non ha però detto che è stato l’Istituto Superiore della Sanità, lo scorso settembre, a sollecitare finalmente l’avvio dello studio mai effettuato. Infatti, il direttore generale della sanità veneta, Massimo Iannichiarico, ha dato l’incarico alla società regionale Azienda Zero.
A quanto ammonta la spesa che la Regione non si è sentita di affrontare? Iss prevedeva un cofinanziamento di 252.000 euro, che sarebbero serviti per retribuire un dirigente di ricerca per 6 mesi (41.500 euro), un primo ricercatore per sei mesi (31.500 euro), un ricercatore per 18 mesi (75 mila euro), altri due ricercatori per quattro mesi (34 mila euro), un tecnico per 12 mesi (48 mila euro) e un amministrativo per sei mesi (22 mila euro). La spesa a carico della Regione Veneto non fu quantificata, ma avrebbe dovuto riguardare le spese di missione per riunioni, gruppi di lavoro e convegni, subcontratti internazionali, organizzazione di eventi, pubblicazioni, messa a disposizione del software e una borsa di dottorato per tutta la durata dello studio. In aggiunta il 20 per cento delle spese generali di Iss.
La consigliera Guarda, assieme ai colleghi Andrea Zanoni, Francesca Zottis, Chiara Luisetto e Anna Maria Bigon del Pd, ha commentato: “E’ una ammissione indicibilmente grave, perché gli studi che possono chiarire con certezza la connessione Pfas-patologie e mortalità non hanno prezzo sia per la prevenzione sanitaria che per la definizione di politiche per fermare i rischi di contaminazione. Senza questo studio, l’azione di prevenzione per i cittadini esposti a mali come tumori, patologie del sangue anche mortali, patologie tiroidee, di neonati e donne in gravidanza, ha sofferto un grave deficit dovuto, ci viene detto oggi, a valutazioni di carattere economico. Ci rispondano: quanto vale la salute dei cittadini?”.
L’avvocato Matteo Ceruti, parte civile nel processo contro la Miteni: “La risposta della giunta regionale mi sorprende perché significa affermare qualcosa di diverso da quanto riferito nel processo da un teste autorevole sotto giuramento, ossia che i tecnici dell’Iss e della Regione si erano tutti espressi positivamente sull’avvio dello studio. Mi sconcerta pensare che valutazioni di ordine economico relativamente contenute abbiano indotto una Regione ricca a bloccare uno studio tanto importante, anche per ragioni di sanità pubblica di cui è una evidente premessa la conoscenza delle patologie correlate ai Pfas”.