Sembrava che il processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni dovesse fermarsi contro un muro infrangibile: quello che impedisce in Italia che un procedimento vada avanti se non c’è la certezza che all’imputato siano stati notificati gli atti. Ma lo scorso 27 settembre la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul caso del ricercatore italiano massacrato in Egitto per cui sono imputati funzionari egiziani irreperibili, ha stabilito che invece si può procedere per il reato di tortura, se non c’è collaborazione da parte dello stato estero.
Nessuna “zona franca” – I giudici della Consulta, citando tra l’altro la Corte europea dei diritti umani e la Convenzione di New York, hanno quindi abbattuto quel muro stabilendo che “non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale”, la paralisi sine die del processo per la tortura commessa da agenti pubblici a cui non è possibile notificare gli atti per la mancata cooperazione dello Stato di appartenenza, che nel caso Regeni è l’Egitto del presidente Al-Sisi. Se il processo fosse stato bloccato si sarebbe violato l’articolo 111 della Costituzione perché “non vi è processo più ‘ingiusto’ di quello che non si può instaurare per volontà di una autorità di Governo”. Sarebbe compromesso anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’articolo 112 “poiché – spiegano i giudici nelle motivazioni depositate oggi – la pretesa punitiva risulterebbe nei fatti ‘subordinata al potere esecutivo dello Stato straniero'”. Senza contare che emergerebbe “una lacuna normativa che pone l’ordinamento italiano nelle condizioni di non poter esso stesso osservare gli obblighi convenzionali”.
L’impossibilità di notifica, nonostante gli sforzi della procura di Roma e degli investigatori del Ros, ai due uomini del dipartimento di sicurezza del Cairo, Tariq Sabir e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e a due agenti della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, “si risolve nella creazione di un’immunità de facto“, che offende tra l’altro i diritti inviolabili della vittima (articolo 2 della Costituzione) e il principio di uguaglianza (articolo 3). Si tratterebbe quindi di “una inammissibile ‘zona franca’ di impunità per i cittadini-funzionari“. Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, “è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana”, afferma la Corte in un altro passaggio della sentenza 192, redatta da Stefano Petitto.
Perché è stata dichiarata l’illegittimità – La sentenza pronunciata il 27 settembre scorso ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
La necessità costituzionale di evitare la stasi del processo può essere soddisfatta, osserva la Corte, senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell’imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell’imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo. Rimettendo al giudice comune l’attuazione di questo diritto nella concretezza del singolo caso, la Corte ha sottolineato che esso, proprio perché conserva all’imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia “rispettosa del principio del giusto processo”. Secondo i giudici “il vulnus costituzionale prodotto dalla lacuna normativa in questione deve essere dunque ridotto a legittimità per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun sacrificio, né condizionamento, delle facoltà partecipative dell’imputato, ma unicamente con una diversa scansione temporale del loro esercizio“.
La tortura crimine contro la dignità della persona – Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, “è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana”. Il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come “il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità”. La Corte era chiamata a pronunciarsi “su una fattispecie segnata dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini”. Verità per Giulio Regeni, ma anche per tutti noi.
“In casi eccezionali” si può quindi procedere “nell’assenza di un imputato pur se non è provata la conoscenza da parte sua della pendenza del processo, ove sia certo che egli abbia conoscenza del procedimento” e in considerazione dell’enorme eco del caso, delle richieste di rogatoria da parte della procura di Roma e delle indagini anche in Egitto, con ogni probabilità i quattro imputati erano perfettamente a conoscenza di dover rispondere di quei nove giorni in cui Regeni, tra gennaio e febbraio del 202016, “fu seviziato con lame e bastoni”, per poi essere lasciato sul ciglio dell’autostrada del deserto che collega Il Cairo ad Alessandria. Il suo corpo era in condizioni tali che la madre disse che l’unica cosa riconoscibile del figlio era la “punta del naso”.