“Ragazza di 21 anni si suicida a Lecce dopo aver raccontato alle amiche di aver subito una violenza sessuale” con queste parole abbiamo appreso la notizia dai quotidiani della morte di una studentessa universitaria che era in Italia da pochi mesi per un percorso di studi con l’Erasmus. Il 19 ottobre si era sottoposta ad una visita al pronto soccorso, aveva detto al personale sanitario di aver subito una violenza sessuale, aveva respinto il consiglio di denunciare e si era rifiutata di sottoporsi ad esami di accertamento. Della violenza aveva parlato ad alcune amiche, poi ha affidato gli ultimi pensieri al diario dove ha scritto un messaggio di addio ai genitori. Si chiamava Julie, era francese e studiava Filosofia.

Il senso di impotenza che ci attraversa, l’amarezza profonda per non essere stati capaci di raggiungerla e proteggerla dalla disperazione nella quale era caduta dopo la violenza, dovrebbe interrogarci su ciò che manca, sulla inadeguatezza degli interventi, sulle smagliature del lavoro di rete, sulla assenza di un accompagnamento per le vittime di violenza che spesso si trovano sole perché le istituzioni propongono sempre e soprattutto, risposte securitarie che spesso spalancano le porte alla vittimizzazione secondaria.

Quando una donna che ha subito violenza si reca al Pronto soccorso può sentirsi travolta dalle procedure del Codice Rosso: deve essere sentita entro tre giorni, che sono i tempi dettati dallo Stato, tempi che non sono suoi. Se ha subito violenza sessuale le viene chiesto di sottoporsi ad accertamenti medici che spesso sono vissuti come l’ennesima violazione. Il corpo della donna deve parlare perché la sua parola non basta, non basta mai. Eppure raramente la violenza sessuale lascia segni sul corpo, se la donna reagisce alla sensazione di pericolo con la tanatosi, o è ubriaca e semicosciente, o è sotto minaccia. Ma le ferite del trauma ci sono e sono tutte nel ricordo di quell’evento.

L’accelerazione delle procedure di intervento cerca di colmare le lacune delle risposte quando sono ostacolate da stereotipi e pregiudizi e da una lettura annebbiata che non riconosce la violenza, fino alla banalizzazione della stessa. I tribunali, la giustizia detta procedure che non sono state pensate per le donne che subiscono violenza maschile, e rivolgersi all’autorità giudiziaria, molto spesso, è l’ultima cosa alla quale pensa una vittima di maltrattamento o stupro. Ecco perché Julie non ha denunciato. C’è la paura, c’è l’angoscia, e il senso di isolamento e solitudine. Il trauma della violenza diventa un muro che può rendere irraggiungibile chi ne è stato segnato. Se qualcuno ha memoria del bellissimo e struggente monologo di Franca Rame può capire perché la denuncia penale per una donna che è stata violata non è una priorità. Di cosa aveva davvero bisogno Julie? Nessuno lo ha capito.

Una psicoterapeuta stamattina ha scritto sulla pagina Facebook della testata Labodif per raccontare la sua frustrazione nel leggere la narrazione di questo ennesimo femminicidio sul Corriere della Sera: “Una ragazza dalla psicologia fragile, che se avesse chiesto aiuto allo sportello nell’Università di Lecce…” – e aggiunge – “ Sono una psicoterapeuta e mi addolora leggere che una ragazzina di 21 anni, in una terra straniera, venga definita fragile in una circostanza così. La colpa è la sua, è ancora solo la sua”.

In queste ore gli inquirenti stanno interrogando un ragazzo, sospettato di essere l’autore dello stupro: chiunque sia stato responsabile rischia l’imputazione di incitamento al suicidio. Chiunque sia stato è uno dei tanti responsabili di violenze quotidiane, alcune le conosciamo perché diventano cronaca. Di altre non sapremo mai nulla. Gli stupri commessi da giovanissimi su coetanee sono in aumento, un dato che ci sorprende perché ci si aspetta che la società e le relazioni tra uomini e donne siano cambiate. Non è così.

Con sgomento abbiamo saputo della brutale violenza commessa a Palermo l’estate scorsa, o dell’ennesima donna uccisa dal compagno, con preoccupazione ascoltiamo le testimonianze di ragazze aggredite da sconosciuti in strada o discriminate da colleghi di lavoro che ne fanno oggetto di volgarità sessiste. Non possiamo più aspettare un cambiamento culturale e l’assunzione di responsabilità collettiva da parte degli uomini, di qualunque età, è un passaggio indispensabile. Me lo dice con forza al telefono Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista che da anni denuncia e analizza l’origine culturale della violenza maschile: “Questa notizia sarà, immancabilmente, un’altra occasione persa. Non sono le notizie di stupri, di gruppo o no, a essere molto aumentate: gli stupri ci sono sempre stati, e le donne sopravvissute o vittime, a breve o a lungo termine, con le loro vite devastate o interrotte, ci sono sempre state. Quello che continua a mancare è la volontà politica di un genere, quello maschile, di interrogarsi non sull’identità del ‘mostro’, del ‘lupo’, del ‘maniaco’ – tutte figure inconsistenti e deresponsabilizzanti – ma sull’identità maschile più generica possibile, più comune possibile, più banale possibile, alla quale sempre corrisponde lo stupratore o gli stupratori”.

“Studenti, imprenditori, impiegati di banca, manager, registi, disoccupati: i ‘normali’ stupratori – continua Gasparrini – sono sempre stati qui anche loro, tranquillamente immersi in una ‘cultura dello stupro’ . Una definizione che solleva molte contestazioni e proteste, ma mai una presa di coscienza di genere da parte di quel genere – maschio, bianco, etero, ‘normale’ – al quale appartengono la stragrande maggioranza degli stupratori. Intanto aumenta l’elenco delle donne morte per quella cultura, che in questo caso chiameremo probabilmente ‘istigazione al suicidio’, altra etichetta che servirà a identificare una mostruosa eccezione. Che invece, per milioni di donne, continua a essere la normalità; che invece, per milioni di uomini, continua a essere personale indifferenza e irresponsabilità sociale’’.

@nadiesdaa

Se hai bisogno di aiuto o conosci qualcuno che potrebbe averne bisogno, ricordati che esiste Telefono amico Italia (0223272327), un servizio di ascolto attivo ogni giorno dalle 10 alle 24 da contattare in caso di solitudine, angoscia, tristezza, sconforto e rabbia. Per ricevere aiuto si può chiamare anche il 112, numero unico di emergenza. O contattare i volontari della onlus Samaritans allo 0677208977 (operativi tutti i giorni dalle ore 13 alle 22).
Se sei vittima di violenza, chiedi aiuto al 1522 che risponde h24 e con operatrici formate sulla violenza.

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