Assistiamo in questi giorni all’ennesimo “scandalo” (termine che ha nella sua stessa radice un carattere di occasionalità ormai del tutto fuori luogo) nel mondo del calcio. La questione scommesse, per sua stessa natura, coinvolge argomenti molto diversi (giustizia, sport, medicina, società) sovrapponendo i quali, si rischia concretamente di perdere la bussola. E così, dopo aver ascoltato diverse analisi, anche autorevoli, vorrei proporre alcune argomentazioni che, a mio avviso, hanno avuto poca eco nel dibattito in corso.
La “chiave di lettura” proposta dalle società sportive, subito accolta dai media, è quella della ludopatia; quasi che la malattia costituisse una sorta di assoluzione preventiva (o scudo d’invulnerabilità) in grado di respingere qualsiasi possibile argomentazione critica. Sorvoliamo, per ora, su interrogativi quali: si può formulare una diagnosi seria, onnicomprensiva, a pochi giorni dall’uscita della notizia? Perché società danneggiate si sono immediatamente prodigate nell’offrire sostegno indiscriminato ai propri tesserati? Perché in altri casi, meno gravi e sistematici, queste stesse società hanno agito in modo diverso? Vedremo… Nel frattempo, concentriamoci su come il sistema mediatico stia trattando la questione, dando per assunto che di malattia, effettivamente si tratti.
Molti giornalisti si sono chiesti perché, a scommettere grosse cifre, siano proprio ragazzi giovani, ricchi e famosi che hanno tutto, e non certo bisogno di soldi. Su questa scia, altri si sono domandati se non siano piuttosto eccitazione ed adrenalina, ciò che in realtà questi “atleti annoiati” ricercano. Interrogativi legittimi, per carità, ma ingenui quanto basta per sperare che si tratti più di espedienti volti ad animare il dibattito, che autentici dubbi professionali. Come noto infatti a chiunque abbia letto un manuale di psicologia, le dipendenze patologiche hanno generalmente tutte la stessa origine, ovvero la mancata relazione affettiva con la figura di accudimento primaria. Ne consegue che il soggetto, comportandosi in modo egoistico, ricerchi ossessivamente e compulsivamente dei piaceri che possano riempire questo vuoto. Tramite un mezzo, o una sostanza, la persona prova a contenere l’ansia e il dolore, alla ricerca di uno stato di benessere che, con il tempo, sarà sempre più difficile raggiungere, fino alla definitiva perdita di controllo e rapporto con la realtà.
Il vuoto è, dunque, il primo grande assente dal dibattito attuale. E questo non per ragioni di censura, ma d’inadeguatezza culturale. Ipotizzare infatti che chi ha tutto dovrebbe essere immune da certi atteggiamenti è la dimostrazione plastica del materialismo bieco in cui siamo ormai sprofondati. Solo chi è ciecamente preda di questo schema mentale, in cui contano sostanzialmente solo le cose, può porsi l’interrogativo in questi termini. L’equivoco drammatico si consuma proprio intorno al termine tutto. Quale tutto? Un conto corrente importante, una super macchina, tanti follower; sarebbe questo, il tutto? Nemmeno i film popolari di Hollywood riescono più ad insegnarci qualcosa? Soldi, successo, potere, notorietà non sono certo un male di per sé, ma come si può anche solo immaginare che possano sostituire, in un essere vivente evolutosi con determinate modalità per millenni, amore, cura ed affetto. Sono questi, i soli elementi cruciali che concorrono a costituire dentro di noi quel nucleo caldo in grado di proteggerci da certi abissi, gettando luce su qualsiasi ombra.
L’altro convitato di pietra nel dibattito, è il desiderio. Eppure, anche in questo caso, autori come Umberto Galimberti o Miguel Benasayag (solo per citare i più noti) qualche spunto di riflessione meno banale, lo offrirebbero pure. Il desiderio è un potentissimo elisir in grado di proiettarci verso orizzonti in cui il futuro, stagliandosi come una promessa, si illumina di un senso che retroagisce anche sul presente, motivandoci, e riempiendoci di vitalità. Ma, se fin dall’infanzia i bambini sono assediati da regali e giocattoli, offerti per altro in sostituzione della presenza dei genitori, cosa ci si aspetta da persone che, a vent’anni, hanno già “tutto”? È nello spazio che si estende tra il desiderio e la sua realizzazione (anche mancata, direbbe Pasolini) che si verifica la crescita e la maturazione psichica di un soggetto. Dopotutto, è quando la corda è tesa, che vibra… Ma se ai giovani precludiamo ogni possibilità di desiderare, in quanto tutto (persone comprese) è immediatamente disponibile, rendiamo loro ancor più tortuoso un percorso di crescita reso già abbastanza difficile da una società appiattita sul più grigio materialismo. Il pubblicitario plurimiliardario, Frederic Beigbeder, ebbe modo di scrivere: “Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”.
Ultima argomentazione, totalmente assente dal dibattito, è il lusso. Non trovo qui soluzione migliore che citare il grande Richard Wagner: “Il lusso non può mai essere soddisfatto perché, essendo qualcosa di falso, non esiste per esso un contrario vero e reale in grado di soddisfarlo e assorbirlo”. Se sei stanco puoi riposare, se hai fame puoi mangiare, ma se insegui allucinazioni ed ombre, sei destinato, come i vampiri, ad ardere di una sete che mai si placherà.
In conclusione, se una volta certi atteggiamenti sarebbero stati stigmatizzati, almeno per tutelare l’immagine, la sensazione è che oggi non ci sia più alcuna reputazione da difendere. Mi pare del tutto chiaro che, l’attuale establishment, posto difronte al “dilemma” di condannare o assolvere gli atleti, abbia fatto, una volta tanto, una scelta netta. Consapevoli del fatto che, ormai da molti anni, i giocatori non sono più d’esempio per nessuno, si è preferito assolverli creando automaticamente complicità con milioni di scommettitori seriali, pronti a sentirsi ancor più legittimati, ed indirettamente parte, dello stesso “club esclusivo”. Le inquietanti e trasversali testimonianze d’affetto che la “gente comune” sta tributando a certi atleti la dice lunga sul fatto che il sistema calcio abbia, nell’immediato, fatto la “scelta giusta”.