In fondo alla classifica degli ospedali italiani ce ne sono otto, tutti pubblici. Tre si trovano in Campania: Umberto I di Nocera Inferiore, Luigi Curto di Polla e Immacolata di Sapri; due in Sicilia: Vittorio Emanuele di Gela e V. Cervello di Palermo; uno nel Lazio: San Giovanni Evangelista di Tivoli; uno in Liguria: Stabilimento Ospedaliero di Sanremo; uno in Piemonte: Ss. Pietro e Paolo di Borgosesia. Sono situazioni molto diverse fra loro, nelle quali naturalmente ci sono medici e infermieri che fanno il loro dovere e anche di più. Ma il monitoraggio di Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, ha rilevato almeno cinque volte “standard di qualità molto bassi” tra i numerosi indicatori presi in esame nel Programma nazionale esiti (Pne), che fotografa le condizioni della nostra sanità nelle diverse aree (cardiovascolare, chirurgia generale, chirurgia oncologica, osteomuscolare, respiratorio, gravidanza e parto, nefrologia: ma ovviamente non tutti gli ospedali fanno tutto).
A Nocera Inferiore, in estrema sintesi, muoiono troppi pazienti rispetto all’atteso a 30 giorni da scompensi cardiaci, ictus o interventi al colon, mentre sugli infarti va meglio; si registra un eccesso di parti cesarei; se un anziano si rompe un femore è improbabile che sia operato nelle 48 ore indicate dai protocolli, mentre chi si opera di protesi d’anca ha un rischio consistente di tornare in ospedale nelle 4 settimane successive. A Polla vanno meglio sulla cardiologia, il femore e i cesarei, peggio sulla gestione dei (pochi) interventi alla colecisti. Come a Sapri, dove invece c’è un’alta mortalità dopo ricoveri per infarto acuto e interventi al colon e sul versante protesi/femore gli indicatori sono tutti negativi. Al Vittorio Emanuele di Gela c’è un’alta incidenza di nuovi interventi nei 120 giorni dalla resezione di tumori della mammella e alta mortalità post-chirurgica per il cancro al colon; troppi morti anche nei 30 giorni dal ricovero per infarto e troppi cesarei. Al Cervello di Palermo buoni risultati sul trattamento clinico degli infarti, ma il resto va male, compresa la mortalità dopo il ricovero per broncopatia cronica ostruttiva (Bpco). A Sanremo ritardi sugli interventi al femore e soprattutto sull’angioplastica post infarto, che andrebbe fatta in 90 minuti; male sul tumore della mammella e sull’insufficienza renale cronica (eccesso di mortalità a 30 giorni dal ricovero). A Borgosesia (Vercelli) pessimi risultati per la maternità e sulla mortalità post-intervento al colon e post-ricovero per Bpco. A Tivoli (Roma) indicatori negativi sull’area osteomuscolare e sullo scompenso cardiaco, ma non sull’infarto.
Stretta com’è tra lo Stato che taglia, le Regioni che vanno in ordine sparso e i privati che si allargano, Agenas si guarda bene dal parlare di classifiche. Giovedì 26 ottobre, nel presentare i dati del Pne che documentano l’arrancare post Covid degli ospedali pubblici e privati accreditati, l’agenzia diretta da Domenico Mantoan ha reso noti i nomi dei centri che funzionano meglio, ma non certo quelli delle strutture messe peggio, comunicati al ministero della Salute e alle Regioni nel tentativo di mettere in campo possibili soluzioni ai problemi più gravi. Gli ospedali con le maggiori criticità li abbiamo trovati faticando un po’ sul sito di Agenas: familiarizzando con i tecnicismi chiunque può vedere come è messo il suo ospedale di riferimento. È la sanità pubblica nel suo complesso a soffrire, con enormi differenze di qualità tra le Regioni e perfino all’interno dei singoli ospedali, tra un reparto e l’altro. L’équipe guidata da Marina Davoli ha monitorato 1.400 aziende sanitarie, ma ben 436 non hanno volumi di attività sufficienti per una valutazione pienamente attendibile: sono ospedali medio-piccoli, come del resto gli otto di cui sopra (da 1000 ai 6000 ricoverati l’anno di Nocera Inferiore). Alcuni in prospettiva rischiano la chiusura o la trasformazione in Case di comunità nel nuovo ordinamento della sanità territoriale, ammesso che il governo lo realizzi davvero.