Fëdor Michajlovič Dostoevskij, il padre della letteratura moderna, l’unica persona da cui Friedrich Nietzsche riconosceva di aver imparato un po’ di psicologia, lo scrittore di cui Einstein disse “a me ha dato più di qualunque scienziato”, il maestro della introspezione più spietata, l’indagatore più rigoroso e spericolato degli abissi interiori, non è stato solamente un romanziere dall’influenza mastodontica, ma in primo luogo un gigante del pensiero. E, come la grecità classica mostrò, sul sentiero smarrito e poi riscoperto a tentoni dai ricercatori più consapevoli del Novecento, il teatro nasce e trova la sua dimensione più sacra come dimora privilegiata della riflessione filosofica.

Non a caso, la parabola di una delle figure più geniali del teatro nel secolo scorso ebbe origine proprio dalla riduzione teatrale di un testo dostoevskiano realizzata da uno dei più coraggiosi filosofi del Novecento: ci riferiamo al celebre aneddoto dell’incontro veneziano del ‘59 tra il giovane Carmelo Bene e Albert Camus; il pensatore francese stava portando in scena al Teatro La Fenice la sua versione de I Demoni, e in quell’occasione concesse gratuitamente a quel giovane salentino, insieme riverente e sfrontato, i diritti per esordire nella storia del teatro con la prima versione mai recitata in pubblico del suo Caligola.

Il testo dostoevskiano in cui l’incontro tra intreccio romanzesco e riflessione filosofica, etica e teologica si manifesta nella più vertiginosa ambizione è, probabilmente, I Fratelli Karamazov, il grande ultimo capolavoro della maturità dello scrittore russo. In particolare, il memorabile “romanzo nel romanzo”, il capitolo conosciuto come La leggenda del Grande Inquisitore, che porta alle estreme conseguenze l’intuizione abissale che già aveva ispirato l’altro grande testo di meditazione teologica sull’Incarnazione, ovvero L’Idiota: cosa accadrebbe se Gesù Cristo tornasse sulla terra? Da questa ipotesi, lo scrittore russo fa scaturire, in un paradossale processo per eresia al Messia, la più mirabile e potente invettiva contro la religione istituzionale mai sferrata in un’opera letteraria.

Uno spunto così maestosamente tragico non poteva che pretendere d’essere incarnato sulla scena. Un attore colto e sensibile come Umberto Orsini ha, da anni, raccolto la sfida. Il suo corpo a corpo con Ivan Karamazov segna tutta la sua prestigiosa carriera attoriale: dal fortunato sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi tratto dal romanzo (seguito da 20 milioni di persone!) alla versione teatrale, apprezzatissima, di circa dieci anni fa della Leggenda fino all’attuale Le memorie di Ivan Karamazov, andato in scena la settimana scorsa al Teatro Vascello di Roma. Come scrive Nina Nocera nel suo saggio Metafisica del sottosuolo: “È risaputo che la vicenda dei Karamazov, nella avventura dostoevskiana, rappresenti il punto di massima tensione filosofica e la definitiva riflessione sul male e sulla libertà”.

“Se Dio non c’è, tutto è permesso”: questo è il dogma negatore che preannuncia il tragico annuncio nietzscheano della “morte di Dio” e spalanca le porte del nichilismo contemporaneo. Orsini, sostenuto sulla scena solo da pochi accorgimenti scenici ad effetto, è credibile e commovente nel restituire il complesso tormento interiore di Ivan, la “sofferta e sibillina riflessione sull’identità” di cui parla nelle note di scena il regista Luca Micheletti. Nello stesso apparato critico, Orsini si apre sul suo rapporto col personaggio: “Ho sempre cercato di seguirlo anche fuori dal contesto del romanzo, immaginando per lui una longevità e un finale che il suo autore gli aveva negato. Mi sono dunque preso la libertà di rappresentarlo come un personaggio che resiste nel tempo, e mi sono chiesto, e gli ho fatto chiedere, perché mai l’autore, il suo creatore, lo abbia abbandonato non-finito. E questo non-finito me lo sono trovato tra le mani oggi, come in-finito e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico”. Siamo fortunati ad averlo visto dal vivo.

Consentitemi ora una considerazione, solo apparentemente peregrina. Sono circa trent’anni che la tecnologia ha perfezionato l’utilizzo della telefonia cellulare, più di dieci che gli smartphone hanno invaso la nostra quotidianità. E ancora la gente non capisce che a teatro (o al cinema) bisogna spegnere il telefonino. Non c’è modo migliore per confermare le tesi di Ivan Karamazov: negazione dell’armonia divina e disprezzo per gli esseri umani incapaci di meritarsi la libertà.

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