di Francesco Galeazzi
Nel corso del XXI secolo, il mondo del lavoro ha subito profonde trasformazioni. Per comprendere appieno le dinamiche attuali del lavoro, è essenziale contestualizzare la situazione storica. Le rivoluzioni industriali del XIX e XX secolo hanno portato alla nascita del lavoro salariato e alla crescita delle città industriali. Oggi siamo in una fase di post-industrializzazione, in cui il settore dei servizi, la tecnologia e l’automazione stanno ridefinendo il concetto stesso di lavoro. Domenico de Masi diceva che al centro del sistema della nostra società non c’è più la produzione di beni materiali ma la produzione di beni immateriali fatta di servizi, informazioni ed estetica.
In virtù di tutto ciò, non possiamo ignorare che la precarietà e le crisi sempre più frequenti del capitalismo hanno accentuato la paura della disoccupazione: l’unica certezza è quella di un futuro sempre più incerto. La perdita del lavoro è una delle peggiori sfortune che possono capitare a ciascuno di noi. La sua assenza comporta problemi di salute sia dal punto di vista fisico che psicologico. La perdita del lavoro non significa solo la perdita del reddito, ma molte altre cose che incidono implicitamente sul benessere della persona. I sentimenti prevalenti sono quelli di fallimento, frustrazione, insicurezza, inadeguatezza, poca fiducia in se stessi, negli altri e nel futuro. Si aggiunge anche un senso di colpa per non riuscire a soddisfare i bisogni primari della famiglia. Con il passare del tempo possono anche comparire sentimenti di rivalsa e vendetta nei confronti di un sistema che esclude coloro che non riescono a integrarsi.
È inutile negare che le politiche dell’attuale governo, fortemente neoliberiste, sono orientate verso un’unica direzione: quella di creare sempre più masse di disoccupati e persone disperate, funzionali agli stessi equilibri del sistema. La presenza di lavoratori disoccupati contribuisce a mantenere bassi i salari, contribuendo anche a una sorta di “disciplinamento” dei lavoratori.
Allora, cosa fare per creare lavoro? Le opzioni non sono molte. Luciano Gallino, in suo intervento alla “Biennale Democrazia”, sostiene che la prima strada è quella delle grandi invenzioni, la seconda è la spesa pubblica. Oggi tutta l’Ue è alle prese con l’ossessione del deficit, mentre il deficit di bilancio è stato per secoli uno strumento importante di politica economica. Storicamente, una strada efficace per creare occupazione è stata la spesa pubblica, che ha creato posti di lavoro sotto forma di grandi opere infrastrutturali, mentre un’altra strada, soprattutto nel periodo centrale del ‘900, sono state le spese belliche. La terza strada è lo Stato che crea direttamente posti di lavoro, come hanno fatto gli americani durante il New Deal, quando sono stati creati 15 milioni di posti di lavoro e la disoccupazione è stata ridotta dal 25% al 14%. Poi c’è la strada delle politiche fiscali. Lo Stato riduce le imposte alle imprese per incentivare le assunzioni, attraverso la riduzione del cuneo fiscale.
Il problema è che i nostri governi hanno sempre concentrato la loro attenzione su questa strada, che significa distribuire a pioggia il reddito alle famiglie. Questa strada è poco efficace per molte ragioni: in primo luogo, non discrimina tra i tipi di lavoro creati; in secondo luogo, se le famiglie hanno un po’ più di denaro, non è detto che lo impieghino per aumentare la domanda (cioè spendere). Inoltre, non è garantito che le imprese assumeranno immediatamente. In breve, molti studi concordano sul fatto che questa sia la strada meno efficace per creare lavoro.
L’aumento della spesa pubblica, come dimostra l’esperienza del New Deal, è il miglior metodo per ridurre la disoccupazione. Durante quel periodo, gli americani hanno ristrutturato scuole, strade e costruito dighe imponenti. Hanno tolto milioni di giovani dalla disoccupazione. Il Superbonus e il Pnrr mi fanno ricordare un nuovo New Deal.