L’empatia selettiva si riferisce alla tendenza degli individui e di intere popolazioni ad empatizzare maggiormente con determinati individui o gruppi, mostrando meno empatia verso gli altri. Implica la decisione conscia o inconscia di entrare in empatia in modo selettivo in base a fattori quali razza, genere, nazionalità o status sociale.
Un aspetto dell’empatia selettiva è il concetto di pregiudizio all’interno del gruppo, in base al quale gli individui tendono a mostrare maggiore empatia verso i membri del proprio gruppo o comunità. Questo pregiudizio può portare a favoritismi e discriminazioni contro individui appartenenti a gruppi diversi, perpetuando divisioni e disuguaglianze sociali.
Un altro fattore che influenza l’empatia selettiva è la somiglianza percepita tra sé e gli altri. Le persone spesso trovano più facile entrare in empatia con coloro che percepiscono come simili a loro in termini di valori, credenze o esperienze, etnia, colore della pelle e nazione. Ciò può comportare una mancanza di empatia nei confronti di individui percepiti come diversi o non familiari.
Il nazionalismo e l’empatia selettiva possono essere strettamente correlati, poiché il nazionalismo spesso implica un forte attaccamento verso la propria nazione. Il nazionalismo alimenta un forte senso di identità all’interno del gruppo e lealtà per il proprio popolo, riducendo potenzialmente l’empatia per le persone di altre nazioni, favorendo un senso di “noi contro loro”. I governi o i movimenti nazionalisti spesso ricorrono all’uso di propaganda portando a compassione selettiva, e rafforzando l’etnocentrismo, o la credenza che la propria nazione o etnia sia superiore alle altre. L’uso di simboli come le bandiere nazionali può alimentare un forte senso di appartenenza verso un popolo e allo stesso tempo sentimenti d’odio verso un altro popolo percepito come “diverso”.
L’empatia selettiva può anche essere influenzata dalle rappresentazioni dei media. Può essere alimentata, ad esempio, dal modo in cui le istituzioni educative insegnano la storia. I media svolgono un ruolo significativo nel plasmare la percezione del pubblico e possono rafforzare stereotipi o pregiudizi, portando a livelli differenziali di empatia verso gruppi diversi. Basta raccontare fatti e eventi relativi a nazioni o popoli usando filtri nazionalistici o etnocentristi per creare folle di persone che amano la propria bandiera, ma odiano altre nazioni, etnie o popoli.
Nel libro Manufacturing Consent: the Political Economy of Mass Media, Edward Herman e Noam Chomsky hanno presentato un “modello di propaganda” in base al quale i mass media mobilitano sostegno pubblico selettivo per alcuni interessi speciali dettati dall’agenda economica e geopolitica di stati e settori privati molto potenti. La chiave dell’analisi di questo libro erano alcuni “filtri” usati dai mass media per interpretare fatti ed eventi ponendo estrema attenzione solo su alcuni di questi, escludendo in modo deliberato o inconscio fatti ed eventi che non confermano la narrativa dominante (pregiudizio di conferma collettivo).
Herman e Chomsky hanno etichettato uno di questi filtri con la definizione di “vittime degne e indegne”, sottolineando che mentre alcune popolazioni colpite da eventi tragici sembrano meritare intensa e ampia copertura mediatica, altre non sono invece degne di alcuna attenzione.
A me piacciono le bandiere, ma è importante riconoscere le loro potenziali conseguenze sull’empatia selettiva. Se le bandiere minano la nostra capacità di metterci nei panni degli altri possono perpetuare gravi ingiustizie sociali e perfino genocidi. Possono ostacolare gli sforzi verso l’uguaglianza, i diritti umani e l’inclusione sociale. In queste settimane, ad esempio, il martirio (o gli atti di genocidio, così li hanno definiti oltre 800 esperti in legge internazionale) di un popolo è avvenuto con il pieno sostegno morale, economico e militare di governi democratici che pontificano sull’importanza di valori come la democrazia all’interno del proprio “in-group”, ignorando in modo accurato e sistematico che gli stessi valori e democrazia causano conseguenze letali per una popolazione “out-group”.
E’ stupefacente leggere le argomentazioni a favore di interventi militari o atti che da decenni sono condannati dalle Nazioni Unite come “apartheid” o “crimini contro l’umanità”. Inoltre, è assordante il silenzio di giornalisti, opinionisti, accademici e politici e l’ipocrisia collettiva fondata su doppi standard di governi che credono di essere modelli di civiltà e giustizia sociale perché non si sono ancora bene guardati allo specchio.
Ma forse la domanda fondamentale è questa: la capacità di porsi nello stato d’animo o nella situazione di altre persone, sentire ciò che altre persone stanno provando, provare compassione per la sofferenza altrui sono sentimenti universali? E’ possibile sbarazzarsi di preferenze etniche, nazionalistiche, provando un senso di appartenenza che va oltre i propri “confini” nazionali, etnici e psicologici? L’amore universale esiste? Vivremo mai in un mondo dove tutti provano compassione per tutti? Sarà possibile un giorno provare eguale compassione per le sofferenze dei civili colpiti a New York, Tel Aviv e Kiev rispetto ai civili colpiti a Gaza e Donetsk (o in Yemen, Afghanistan, Iraq, Libia, etc.)?
Tutti i civili vittime di violenze e militarismo di tutti i paesi non meritano la nostra stessa compassione e solidarietà? O le nostre lacrime scendono forse a targhe alterne?