di Domenico Depalo e Salvatore Lattanzio (fonte: lavoce.info)*

Più che ai livelli delle retribuzioni, l’andamento della disuguaglianza salariale in Italia è legato a quello della stabilità e intensità del lavoro. Le nuove norme facilitano l’ingresso nel mercato, ma con contratti atipici che tendono a rimanere tali.

La distribuzione del reddito negli ultimi trent’anni

In Italia, il livello della disuguaglianza nei redditi da lavoro tra la popolazione in età lavorativa è superiore a quello di Francia e Germania e sostanzialmente simile a quello della Spagna, come documentato da Giulia Bovini, Emanuele Ciani, Marta De Philippis e Stefania Romano.

Una recente indagine dell’Oecd ha rivelato che i cittadini sono preoccupati dal livello di disuguaglianza nel paese, in particolare quella di natura retributiva. I dati amministrativi dell’Inps, relativi a un campione rappresentativo di lavoratori dipendenti nel settore privato non agricolo, hanno permesso un approfondimento sull’andamento, l’entità e le possibili determinanti del fenomeno nell’arco di oltre trent’anni (1990-2021).

La figura 1 riporta le variazioni percentuali nei quantili della distribuzione dei redditi da lavoro annuali, in termini reali. I lavoratori al decimo percentile della distribuzione (ossia coloro che percepiscono una retribuzione più bassa del 90 per cento del campione) hanno visto le proprie retribuzioni annue erodersi di circa il 30 per cento negli ultimi tre decenni. Anche i lavoratori alla mediana (coloro che si trovano al centro della distribuzione) hanno subito una perdita, di poco inferiore al 10 per cento.

Al contrario, tra i lavoratori nella parte alta della distribuzione, al 90° o 99° percentile, le retribuzioni sono aumentate. In realtà, i salari sono cresciuti in gran parte nei primi anni Novanta per poi mantenersi sostanzialmente stabili (come documentato anche su questo sito).

La pandemia ha rappresentato uno shock particolarmente negativo, ma di natura temporanea: nel 2021 le retribuzioni sono pressoché tornate sul trend della seconda metà degli anni 2010.

Da cosa dipende l’aumento della disuguaglianza nelle retribuzioni annuali? Come evidenziato anche in un recente contributo di Daniele Checchi e Tullio Jappelli, negli ultimi tre decenni il mercato del lavoro italiano ha sperimentato profonde trasformazioni. Da un lato, tra i lavoratori dipendenti è aumentata la quota di donne, nonché quella dei contratti part-time e a tempo determinato e dei lavoratori impiegati nei servizi (figura 2a). Dall’altro, è diminuita l’intensità di lavoro, ovvero le settimane mediamente lavorate nell’anno, ed è aumentata la frammentazione dei rapporti di lavoro, misurata dal numero medio di contratti stipulati da ciascun lavoratore nel corso dell’anno (pannello b).

L’importanza del numero di settimane lavorate

L’aumento della diffusione di forme contrattuali precarie, la frammentazione dei rapporti di lavoro e la conseguente riduzione delle settimane lavorate nell’anno possono avere avuto un impatto diretto sull’aumento della disuguaglianza. Neutralizzandone gli effetti, dividendo le retribuzioni annuali per il numero di settimane lavorate e correggendo per i contratti part-time, non emerge infatti un evidente aumento della dispersione. Al contrario, nella parte bassa (10o percentile) le cosiddette “retribuzioni settimanali equivalenti a tempo pieno” sono cresciute lievemente di più di quelle alla mediana e nella parte alta.

L’aumento della dispersione dell’intensità di lavoro è dunque il principale canale attraverso cui è cresciuta la disuguaglianza delle retribuzioni annuali. Nel periodo considerato, si è inoltre registrato un aumento della correlazione tra la paga settimanale e il numero di settimane lavorate nell’anno, a indicare che a una maggiore quantità di settimane lavorate si è associato nel tempo un vantaggio salariale crescente. Ciò ha ulteriormente contribuito ad ampliare le differenze tra le retribuzioni basse e quelle alte.

La persistenza dei contratti atipici

Queste tendenze sono andate di pari passo con la maggiore diffusione delle forme contrattuali atipiche, che sono anche divenute più persistenti: la probabilità di mantenere questi contratti per periodi prolungati è infatti notevolmente cresciuta. Nel 1991, il 71 per cento di coloro che avevano un contratto part-time aveva la stessa forma contrattuale nell’anno precedente; nel 2021 la probabilità è salita al 76 per cento (figura 4a).

Su un orizzonte temporale di 5 o 10 anni le probabilità di mantenere il contratto part-time sono cresciute dal 42 per cento (nel 1991) al 50 per cento (nel 2021) e dal 31 al 39 per cento, rispettivamente. Simili dinamiche si riscontrano per i contratti a tempo determinato (pannello b).

L’evoluzione della disuguaglianza salariale in Italia è dunque legata a doppio filo a quella della stabilità e intensità del lavoro più che dei livelli delle retribuzioni unitarie. Come evidenziato anche in un lavoro di ricerca di Eran B. Hoffmann, Davide Malacrino e Luigi Pistaferri, i cambiamenti istituzionali nel mercato del lavoro sembrano aver favorito la diffusione di contratti che, pur facilitando l’inserimento nel mondo lavorativo di individui con basse prospettive occupazionali, rappresentano sempre meno dei punti intermedi verso forme contrattuali più stabili, con il conseguente aumento delle disparità retributive.

* Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o il Sistema europeo di banche centrali

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