Cinema

Pupi Avati confessa: “Ho una lista di 250 nomi di persone care che sono morte: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi”

È un Pupi Avati malinconico e saggio, istrionico e aggraziato, quello che si racconta ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera

di Davide Turrini

La fede, papa Francesco (poco amato), gli amici morti sul computer, Pasolini, Costanzo e la P2. È un Pupi Avati malinconico e saggio, istrionico e aggraziato, quello che si racconta ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. L’84enne regista bolognese, ospite d’onore al prossimo Torino Film Festival, e in rampa di lancio nelle librerie con un romanzo horror (che diventerà un film) L’orto americano, rievoca diversi episodi della sua vita d’artista e di uomo comune: sfollato da bambino tra i bolognesi che scapparono in collina durante la seconda guerra mondiale, da giovane rappresentante di surgelati Findus folgorato dalla visione di Otto e mezzo, lontano dal circoletto degli “amichetti” di sinistra praticamente da sempre. “Ricordo una volta sulla terrazza di Laura Betti. Erano tutti comunisti. Quando dissi che ero democristiano, incrociai lo sguardo di Moravia, carico di disprezzo. Capii che non mi avrebbero mai più invitato”.

Eppure Avati una sua carriera robusta nel cinema di genere la intraprende con i celebri horror anni settanta (La casa delle finestre che ridono, Zeder, ecc) anche se prima c’è Pasolini, e soprattutto lo script di Salò che subito a Pasolini non piacque. “Andai a trovarlo a casa, in via Eufrate 9, all’Eur. Mi aprì, gli chiesi se fosse vero che la sceneggiatura non gli era piaciuta, e lui rispose impietoso: sì. Gli raccontai che anch’io, come suo padre, ero di Bologna. Mi fece entrare, fu carinissimo. Cominciammo a riscrivere il film, insieme con Citti, che doveva essere il regista. Noi discutevamo di violenze e coprofagia, e ogni tanto si affacciava Susanna, la mamma di Pierpaolo, per chiederci se le melanzane le volevamo fritte o con il pomodoro. Capii che “Salò” per lui sarebbe stato il film definitivo, con cui si affacciava sul baratro dell’orrore. E andava oltre. Salò era per Pasolini quello che fu il Requiem per Mozart”.

Avati ricorda ancora che per Regalo di Natale voleva Lino Banfi, un no secco dopo un piatto di ostriche (“voleva fare il Commissario LoGatto con Risi”) e che questo aprì la porta del film al già consumato e dimenticato Diego Abatantuono (“aveva lasciato il cinema, gestiva un night a Rimini, il Lady Godiva”). Ma anche l’attaccamento ai soldi di Fellini e l’apporto alle sceneggiature di alcuni sui film di Maurizio Costanzo: “Talento straordinario. Allora lavorava alla radio. Si inventò Bontà loro ma era terrorizzato dal video, per farsi coraggio prendeva due optalidon e un caffè. Quando uscirono le liste della P2 provò a negare e si nascose in un residence di via Po. Andai a trovarlo e lo convinsi a chiamare Pansa e a raccontare la verità. Ripartì da una tv privata in Sardegna”. Avati analizza a fondo la sua fede cristiana, commentando un certo andazzo laico della Chiesa (“oggi i preti sembrano assistenti sociali”) e quel papa Francesco che non piace tanto (“se il giorno dell’attacco di Putin fosse andato sul confine ucraino forse avrebbe fermato la guerra, come San Leone Magno con Attila”).

L’autore di Storia di ragazzi e di ragazze spiega di parlare ogni giorno con i suoi morti: “Sul computer ho una lista di 250 nomi di persone care che mi hanno lasciato: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi a superare le mie angosce. Ora ho aggiunto Burt Young e Sergio Staino. Ho suggerito lo stesso metodo a Francesca Fagnani — sono amico suo e di Enrico Mentana —, e la sera dopo mi ha chiamato: “Lo sai Pupi che funziona?”. Avati conclude: “Noi siamo debitori verso coloro che ci hanno preceduto. Invece abbiamo cancellato il passato, la memoria. Un tempo in questi giorni si andava al cimitero e si lasciavano i fiori a tutti. Oggi chi lo fa ancora?”.

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