“Mentre partorivo, sentivo il rumore delle bombe”. Baraa al Kafarna, rifugiatasi nella scuola Abu Zeitun, nel nord di Gaza, è la madre di due gemelli nati qualche giorno dopo lo scoppio del conflitto. “Ho lasciato l’ospedale il giorno dopo aver partorito – racconta al quotidiano arabo al Araby el Jadeed -, ora sono qui fra i dolori del post parto e quello di vedere le bombe che cascano distruggendo le nostre case, il nostro quartiere e che provocano morti e feriti”. Come lei, ci sono molte altre donne nella stessa situazione. “Ho partorito mia figlia, dopo aver avuto quattro maschi, e sognavo di celebrare questo momento: ma gli israeliani hanno ucciso la nostra felicità, distruggendo tutto”. Rana Hajjaj, 35 anni, ha partorito il 9 ottobre, due giorni dopo l’inizio delle ostilità. La figlia si chiama Mervat.
Quel giorno, uscendo di casa in direzione dell’ospedale, lungo tutta la strada c’erano parti di corpi e persone ferite. Oltre a quello scenario, racconta al quotidiano arabo, “la cosa più difficile era lasciare la famiglia e non sapere più nulla di loro: qui siano isolati da tutti e non sappiamo cosa succede intorno a noi”. Rana e la sua famiglia si trovano attualmente al campo profughi di Nuseirat, nel governatorato di Deir al Balah, all’interno della Striscia di Gaza. “Siamo qui in un rifugio, spiega al giornale panarabo, ma non c’è acqua, elettricità o cibo. Non abbiamo nulla, se non la paura di perdere le nostre vite o quelle dei nostri figli”. Secondo stime delle Nazioni Unite, sarebbero 50mila le donne incinta a Gaza. Di queste, 5500 sono in procinto di partorire entro i prossimi trenta giorni. Proprio una di queste, secondo fonti di stampa, sarebbe stata uccisa in seguito ad un raid aereo mentre il bambino in grembo sarebbe stato salvato grazie ad un taglio cesario di emergenza.
Nina al Barbari, di 33 anni, è anche lei in procinto di partorire questa settimana ma ha perso i contatti con il medico che la seguiva. “Tutte queste immagini di neonati e bambini sotto le macerie delle loro case, o stesi in un letto d’ospedale, feriti, mi fanno temere per il mio bambino: ogni giorno prego perché la guerra finisca, così da poter salvare mio figlio da queste bombe che non hanno misericordia per nessuno”. Al Barbari, riporta il quotidiano inglese Mirror, che ha raccolto la sua testimonianza, prima del 7 ottobre, a causa del diabete e della pressione sanguigna veniva visitata con regolarità da un medico specialista. Ma da quando è dovuta fuggire da casa propria, cercando rifugio nell’abitazione dei suoi genitori, ha perso ogni contatto con il medico. Proprio la situazione sanitaria è ormai al collasso. Karol Balfe, direttore di Action Aid Irlanda, ha denunciato che “c’è gente disperata costretta a bere acqua sporca” perché non ha accesso neanche al quantitativo minimo per le loro necessità quotidiane. Mentre i medici palestinesi nella Striscia hanno annunciato che l’esercito israeliano ha chiesto di evacuare l’ospedale al Quds. Cosa non possibile, risponde un portavoce della mezza luna rossa, perché “ci sono oltre 400 pazienti e di questi, molti necessitano di cure intensive”. Ciononostante, “continuiamo ad espandere i nostri combattimenti, seguendo il piano per raggiungere i nostri obbiettivi militari” ha comunicato nelle ultime ore Daniel Hagari, portavoce dell’esercito Israeliano. “Faremo tutto il necessario via terra, mare e aria per salvaguardare le nostre forze”.