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Gaza, l’ipotesi dei due Stati ha ancora senso? Lo storico: “Soluzione più giusta. È una chimera dal ’47 anche per ipocrisie Usa e indifferenza Ue”

Potrà mai esserci pace tra israeliani e palestinesi? Dopo i massacri, i rapimenti, le bombe e le migliaia di morti, sarà ancora possibile una ripresa del processo di pace? O tornare a parlare di due Stati, come pure si fa mentre è in corso l’attacco di terra israeliano, è un’illusione? “Rimane la soluzione più giusta e quella che fornirebbe le maggiori garanzie per la stabilizzazione dell’area”, commenta lo storico dell’Università di Torino Lorenzo Kamel, esperto di storia del Medio Oriente e del Nord Africa e autore, tra gli altri, del libro Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia (Carocci, 2022). “Ma poi – avverte – è necessario fare i conti con la realtà sul campo”.

Professore, il punto di non ritorno è stato superato?
Il punto di non ritorno era già stato superato. L’orrore di queste settimane ha reso manifesto e accelerato ciò che era già evidente a chiunque conosca in modo approfondito la realtà locale.

“Due popoli, due Stati”, è mai esistita davvero questa opzione?
Se mai è esistita, riguarda un lontano passato. Uri Avnery, protagonista della storia d’Israele per sette decadi, rispose a questa domanda partendo dalla partizione appoggiata da 33 paesi dei 56 totali che componevano l’assemblea generale dell’Onu nel 1947 (oggi sono 193). “Nessuno – notò – chiese agli arabi palestinesi di accettare o rifiutare alcunché. Qualora fossero stati interpellati, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione perché, dalla loro prospettiva, attribuiva gran parte della loro patria storica a degli stranieri. Tanto più che agli ebrei, che all’epoca costituivano un terzo della popolazione, era assegnato il 55% del territorio – e anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione”. Da allora, o forse già allora, la formula dei due stati è stata una chimera.

Quali e di chi sono le responsabilità dei passati fallimenti?
Asher Ginsberg, uno dei pensatori più influenti del sionismo, arrivò in Palestina nel 1891 e scrisse un articolo intitolato Emet me-Eretz Ysrael (La verità dalla Terra d’Israele). Nel testo, Ginsberg si riferiva ai nuovi coloni che stavano arrivando dall’Europa: “Trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, li picchiano vergognosamente senza alcuna ragione sufficiente, e addirittura si vantano delle proprie azioni. Non c’è nessuno che possa fermare questa tendenza spregevole e pericolosa”. Sono passati 132 anni e la de-umanizzazione dell’altro, che è poi la tragedia ultima di questo conflitto, è rimasta una costante tanto tra i palestinesi quanto tra gli israeliani.

Qual è il ruolo delle colonie in tutto ciò?
Negli ultimi decenni le autorità israeliane hanno attuato una serie di strategie volte ad “annacquare” i confini (o “linea di separazione”) tra Israele e il territorio occupato palestinese, promuovendo al contempo politiche mirate a imporre la propria supremazia nell’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Un processo imposto attraverso l’uso selettivo della religione, della storia e del diritto internazionale, nonché tramite narrazioni fuorvianti che equiparano i palestinesi con cittadinanza israeliana ai coloni insediatisi in anni recenti nel cuore dei territori palestinesi. L’ascesa al potere dei coloni e dell’estrema destra israeliana sono, almeno in parte, il risultato di tali politiche. Ma anche, e forse soprattutto, una testimonianza di ciò che scrisse l’intellettuale inca Dionisio Yupanqui due secoli fa: “Una nazione che ne opprime un’altra forgia le proprie stesse catene”.

Cosa pensa delle minacce che riceve costantemente Israele?
Mi sono formato all’Università ebraica di Gerusalemme: so bene quanto le enormi cicatrici del passato vengano riaperte di fronte a una mattanza che ha portato all’uccisione di 1300 persone innocenti, in buona parte civili. Israele ha il pieno diritto di prosperare e difendersi: Hamas e il vile attentato terroristico di cui si sono macchiati i suoi membri vanno condannati senza se e senza ma. Lo stesso vale per le ideologie che i membri di questo gruppo promuovono. Aggiungo che l’antisemitismo, sempre presente e ancora più visibile in temi di crisi acute, non è solo criminale ma anche uno degli aspetti che più hanno danneggiato la causa palestinese. Mi lasci al contempo aggiungere che l’antisemitismo e l’anti-palestinianismo sono due facce della stessa medaglia: entrambi sono radicati in una viscerale ignoranza e nell’odio verso l’altro. Inoltre, il diritto a prosperare e difendersi è invocato anche dai palestinesi, che sono soggetti a un’occupazione militare da oltre mezzo secolo. Stando ai dati dell’Onu, tra il primo gennaio del 2008 e il 6 ottobre del 2023 sono stati uccisi 6407 palestinesi e 308 israeliani: parliamo solo di civili. Non si tratta di una contabilità da utilizzare nel bilancio tra torti e ragioni, categorie che non interessano a uno storico, ma elementi da considerare nell’analisi di quello che è accaduto in questi anni.

La comunità internazionale non è mai riuscita a far rispettare confini e risoluzioni a Israele, perché dovrebbe riuscirci in futuro?
La cosiddetta comunità internazionale è stata sovente parte del problema più che della soluzione. Prenda l’esempio del segretario di Stato americano, Antony Blinken. Afferma di continuo di appoggiare la soluzione dei due stati. Se così fosse gli Stati Uniti avrebbero votato a favore delle risoluzioni Onu che più volte hanno condannato la crescita degli insediamenti nel territorio occupato palestinese, avrebbero vincolato gli aiuti statunitensi alla fine di questa crescita e imposto limiti alle deduzioni dalle tasse ottenibili da chi elargisce donazioni in favore degli insediamenti. Tra dire e fare c’è di mezzo la realtà dei fatti.

L’Unione europea sostiene la ripresa del processo di pace e alcuni governi contano di individuare una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare. Auspici legittimi? Realistici?
Italo Calvino nel 1968 scrisse che la vera lotta, la vera resistenza, non è soltanto contro un invasore esterno: deve essere anche lotta per un rinnovamento profondo della propria società. Ciò vale ovviamente tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani: due popoli intrappolati in logiche di odio e deumanizzazione reciproca. In Europa oggi molti sostengono che i palestinesi abbiano bisogno di un loro Gandhi. Sovente sono le stesse persone che hanno ignorato, tra molto altro, le proteste largamente pacifiche del 1987-8, quelle settimanali organizzate nel 2008-9 nei villaggi di Ni’lin e Bil’in in Cisgiordania, o, ancora, quelle organizzate nella striscia di Gaza a partire dal 30 marzo 2018: erano proteste largamente non-violente, – decisamente poco visibili alle nostre latitudini – eppure i cecchini israeliani uccisero oltre 270 manifestanti palestinesi.

Prima del 7 ottobre di quest’anno, qual era il rapporto tra Hamas e il governo Israeliano?
Fino a un recente passato, Netanyahu ha considerato la presenza di un forte governo islamista a Gaza come un asset strategico. La frattura Fatah-Cisgiordania e Hamas-Gaza gli permetteva di dimostrare che non esiste alcun partner palestinese con il quale discutere: dunque nessuna prospettiva di uno Stato palestinese e nessuna richiesta di concessioni territoriali. Attraverso il rafforzamento degli elementi più estremisti, anche all’interno del suo stesso governo, e l’indebolimento di quelli più moderati – come l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania – Netanyahu credeva di aver trovato la sua soluzione al conflitto. I cosiddetti “accordi di Abramo” sono parte di questa stessa logica. Non hanno nulla a che vedere con la pace: sono accordi commerciali che silenziano l’occupazione militare vissuta da milioni di palestinesi in favore di scambi commerciali. La normalizzazione è fondamentale, ma solo se mette gli esseri umani, palestinesi e israeliani, al centro della scena. Altrimenti diventa un mero strumento di potere e, come tale, è destinata a fallire.

Da più parti arriva l’appello a “non identificare il popolo palestinese con Hamas”. Qual è la prospettiva di uno storico?
Il 51% della popolazione della Striscia ha meno di 15 anni: quando Hamas vinse le elezioni, nel 2006, più della metà degli abitanti non era neanche nata. In quelle elezioni Hamas prese il 45% dei voti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. E ci riuscì in primo luogo in quanto si presentò come l’alternativa ad al-Fatah, ritenuta, non a torto, profondamente corrotta. Inoltre, tra la fine settembre e il 6 ottobre del 2023, un sondaggio di Arab Barometer in Cisgiordania e Gaza mostra che solo il 29% degli abitanti della Striscia sosteneva Hamas. La larga maggioranza degli interpellati criticava in modo netto la leadership inaffidabile e le condizioni di povertà dovute anche alle politiche di Hamas. Non solo: una maggioranza altrettanto ampia si era espressa a favore dell’autodeterminazione di entrambi i popoli e contro le ideologie promosse da Hamas. Insomma, dal sondaggio emerge un chiaro rigetto di tutta la leadership palestinese. Ma adesso tutto questo dovrà fare i contri con gli ultimi eventi e l’uccisione di circa 8000 palestinesi. Vorrei infine sottolineare che la tesi secondo cui i palestinesi dovrebbero essere ritenuti colpevoli in quanto Hamas si è macchiato di un crimine orribile sottoscrive la logica adottata dai terroristi, compresi quelli che hanno attaccato gli Stati Uniti l’11 settembre del 2001. I terroristi sostenevano che non c’erano civili americani nella misura in cui essi vivevano in una democrazia: erano dunque, dalla loro prospettiva, tutti corresponsabili delle politiche portate avanti dai loro leader. Un ragionamento pericoloso e deumanizzante.

Qual è il retroterra storico legato ad Hamas?
È una domanda che richiederebbe più spazio. Basti accennare al fatto che la città di Gaza è menzionata nelle iscrizioni del faraone egiziano Thutmose III, 3.500 anni fa. 700 anni fa il celebre viaggiatore tangerino Ibn Baṭṭūṭa visitò la città e scrisse che Gaza “è un luogo di ampie dimensioni e attraenti mercati […] non ha alcun muro intorno ad essa [lā sūr ʿalayhā]”. Questo per ricordarci che Gaza ha una storia millenaria: una storia in cui la religione ha avuto un ruolo secondario fino a un recente passato. Tra il 1967 – anno in cui iniziò l’occupazione israeliana della striscia di Gaza – e il 1987, il numero di moschee a Gaza triplicò da 200 a 600. Hamas è stata creata per l’appunto nel 1987, nel contesto dello scoppio della prima intifada. L’organizzazione ha effettuato il suo primo attacco contro forze israeliane nel 1989, uccidendo due soldati. Iz al-Din al-Qassam, il ramo militare di Hamas, è stato fondato nel 1991. Due anni dopo, iniziarono gli attacchi terroristici in Cisgiordania e dall’aprile 1994 – due mesi dopo il massacro perpetrato da Baruch Goldstein nella moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi a Hebron – cominciarono gli attentati suicidi in Israele.

Come vede il conflitto in un’ottica globale?
Quello al quale stiamo assistendo è un conflitto-faglia e ha poco senso ricondurlo, come sovente accade, a uno scontro tra un “Occidente democratico” e i dispotismi degli “altri”. Una delle poche lezioni che ho imparato nella vita è che nell’eterna lotta tra il Bene e il Male sovente vince la lotta. Quest’ultima, nel nostro tempo, non dovrebbe essere individuata in facili dicotomie che parlano alla pancia – e dunque agli istinti – delle persone, bensì nelle cause perduranti che permettono la proliferazione di ingiustizie strutturali non di rado invisibili alle nostre latitudini.

Come se ne esce?
Tanto gli israeliani quanto i palestinesi hanno alle spalle dei traumi enormi in questi 75 anni di conflitto. Il nostro ruolo non è quello di sminuire né comparare i traumi di questi popoli, bensì aiutarli a trovare un messaggio ponte che sia radicato nella consapevolezza che ci troviamo di fronte a due potenti diritti radicati nella stessa terra e a cicatrici che resteranno nei secoli a venire.