Un miliardo e 42 milioni nel biennio 2025-2026, precauzionalmente ridotti a 729 milioni di euro. A tanto ammonta il maggior gettito stimato per la misura che facilita i pignoramenti dei conti correnti da parte dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, al centro la scorsa settimana di uno psicodramma comunicativo nella maggioranza, con la rivolta di Lega e Forza Italia, che aveva portato a un intervento diretto della premier con tanto di veline di Palazzo Chigi: “Non se ne parla questa norma non passa”, avrebbe detto Giorgia Meloni.

E invece, come aveva già fatto notare il Fatto, si trattava di un bluff. Il pignoramento dei conti esisteva come possibilità prima e resterà anche dopo. La norma consentiva all’agente della riscossione di controllare prima se nel conto ci sono soldi e andare così a colpo sicuro senza procedere al buio come avviene oggi. Nella prima versione, la previsione era esplicita: “Prima di procedere al pignoramento dei conti correnti (…) l’agente della riscossione può, in fase stragiudiziale, accedere alle informazioni relative alle disponibilità giacenti sui predetti conti”. A quel punto si invia la richiesta alla banca e al debitore. I dettagli erano demandati a un decreto che il Tesoro avrebbe dovuto discutere con Abi, Poste e Garante della privacy (escludendo comunque i debiti inferiori a mille euro). Nella nuova formulazione – cioè dopo l’intervento di Meloni. La formula diventa solo implicita: per velocizzare i pignoramenti e impedire “il pericolo di condotte elusive da parte del debitore, l’agente della riscossione può avvalersi, prima di avviare l’azione di recupero coattivo, di modalità telematiche di cooperazione applicativa e degli strumenti informatici, per l’acquisizione di tutte le informazioni necessarie al predetto fine, da chiunque detenute”. Tradotto: il pignoramento dei conti, in caso di debiti con l’erario (passato un anno dalla notifica della cartella senza che il contribuente l’abbia contestata e inviato un nuovo avviso) c’era prima e ci sarà ancora. Ora la Riscossione potrà controllare se ci sono soldi o altro presso terzi prima di farlo: cioè quello che era previsto nella prima bozza resta anche nella nuova, ma con una formulazione più vaga che lascia maggior discrezionalità al Tesoro nell’emanare il solito decreto attuativo affidato al viceministro Maurizio Leo.

E’ talmente vero che infatti la relazione tecnica della manovra, che da ieri sera è approdata al Senato con la bollinatura della Ragioneria generale, cifra in quasi un miliardo il maggior gettito della misura nel 205-2026 (347,30 milioni il primo anno e 694,70 il secondo), che prudenzialmente riduce “del 30%” visto che non essendoci ancora il decreto attuativo e quindi “non potendosi ancora conoscere, a priori, le soluzioni applicative che il predetto decreto emanato renderà fruibili”. Dei 729 milioni di maggiori incassi (243,1 milioni il primo anno e 486 il secondo), 162 milioni sono maggiori incassi per l’erario, 60 per gli enti previdenziali e 20 sono classificati alla voce “altri enti” per il 2025; nel 2026 le cifre salgono rispettivamente a 325 milioni, 319 milioni e 41 milioni. Vale la pena di ricordare che solo l’anno scorso i pignoramenti dell’Agente della riscossione sono valsi quasi un miliardo al fisco. La relazione tecnica conferma che anche la nuova riformulazione “consentirà, grazie a forme di cooperazione applicativa, e a ogni altro strumento telematico disponibile, di acquisire, sin dalla fase propedeutica a quella di avvio della procedura esecutiva, i dati e le informazioni necessarie al buon esito dell’azione di recupero”. Ecco svelato il bluff.

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