Meno se ne parla meglio è. Si potrebbe descrivere così l’approccio adottato dalle piattaforme tecnologiche in Cina per affrontare il conflitto in corso tra Hamas e Israele. Nella Repubblica Popolare il dibattito sui social media relativo alla guerra in Medio Oriente è controllato e supervisionato dalla Cybersecurity administration of China, l’ente regolatore della sfera digitale. E negli ultimi giorni non è passata inosservata la scelta dei colossi tech Baidu e Alibaba di oscurare il nome di Israele dalle loro mappe.
È un classico esempio del funzionamento a maglie larghe della censura in Cina, che non opera in modo uniforme e spesso predilige un approccio “a ostacoli”, che aumenta cioè i passaggi per arrivare a una data informazione senza eliminarla direttamente e scoraggiando così gli utenti dal commentare un argomento considerato “sensibile” dalle piattaforme. Un metodo più vicino al tanto discusso shadowbanning (“divieto ombra”) che a una forma di censura vera e propria.
Da inizio conflitto, la Cina si è presentata come interlocutore di entrambe le parti coinvolte senza mai condannare (né menzionare) il gruppo islamico che controlla la Striscia di Gaza, provando invece a posizionarsi come potenza responsabile e promotrice di pace. Dopo il viaggio dell’inviato speciale per il Medio oriente Zhai Jun e i discorsi del ministro degli Esteri, Wang Yi, a “sostegno dei Paesi islamici”, lo scorso weekend al Forum sulla sicurezza di Xiangshan Pechino ha ribadito di avere “invitato tutte le parti coinvolte a parlare insieme del problema” e di aver facilitato il dialogo tra Israele e Iran per evitare un’ulteriore escalation.
Negli scorsi giorni Pechino è stata chiamata a rispondere anche delle accuse di antisemitismo sulla sfera social al di là del GreatFirewall.All’indomani dei bombardamenti israeliani in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre, alcuni utenti avevano commentato sulla piattaforma social simile a Twitter, Weibo, condividendo luoghi comuni sugli ebrei e teorie complottiste sulla loro influenza negli Stati Uniti. Alcuni commenti, successivamente rimossi dalla piattaforma, inneggiavano al lavoro dei tedeschi per aver “capito la natura degli ebrei” in passato.
Commenti di questo tipo costituivano tuttavia una minima e non rappresentativa parte della popolazione digitale cinese e in molti hanno invece guardato al conflitto partecipando alla discussione online con un invito alla pace. A oltre tre settimane dall’inizio della guerra, i commenti antisemiti dei primi giorni sono stati per lo più oscurati. Sui social media e sui media tradizionali in Cina rimane tuttavia una copertura favorevole alla causa palestinese, così come è la posizione ufficiale del governo, mentre i commenti più critici che rimangono sulle piattaforme lo fanno all’interno di una cornice nazionalista in chiave anti-statunitense o anti-giapponese, per ricordare che gli Usa “gettano benzina sul fuoco” e che anche i cinesi, come i palestinesi, “sono stati maltrattati dai demoni giapponesi”.