Il tratto essenziale della prestidigitazióne è il tempismo. Perché per ingannare l’occhio umano e lasciare lo spettatore a bocca aperta il trucco deve consumarsi in una frazione di secondo. È una regola ferrea che Matias Soulé ha ricordato al minuto numero 33 di Frosinone-Hellas Verona. L’argentino recupera palla al limite dell’area avversaria e si ritrova davanti a un muro di maglie bianche. In due si staccano e provano a sbarrargli la strada. Ma succede tutto in un battito di ciglia. Soulé non dribbla i difensori. Ci passa attraverso. Poi alza la testa, apre il sinistro e stampa il pallone contro il palo. È un gesto imperfetto, buono per brillare negli highlights ma non abbastanza per cambiare il risultato della partita. Eppure racconta molto del modo di giocare dell’argentino. In un calcio diventato sempre più robotico e matematico, Soulé rappresenta la scintilla in grado di scatenare il cortocircuito, l’apriscatole capace di trinciare le difese chiuse in maniera fin troppo ermetica. L’impatto dell’esterno argentino su questa Serie A è difficile da fotografare. Perché non combacia con i numeri fatti registrare. Perché va oltre i cinque gol segnati, l’assist servito, e la media di 2.5 occasioni create a partita.

È qualcosa strettamente legato all’estetica delle sue giocate, dove la sostanza è imprescindibile dalla forma. Lo ha dimostrato contro la Fiorentina, quando ha evitato due avversari grazie a un doppio sombrero che ricordava, in piccolo, quello con cui Cafu stordì Nedved in un derby del dicembre del 2000. Ma lo dimostra ogni volta che prende palla sulla fascia destra e taglia verso il centro. La cifra del suo calcio è il controllo, con la sfera che diventa quasi una marionetta pronta a realizzare ogni giocata che si materializza nella sua testa. E non importa quanto ardita possa essere. La sua tecnica lo rende letale nello stretto. Ma la sua capacità di conduzione del pallone gli permette di conficcarsi in ogni retroguardia. Fin qui Soulé ha completato qualcosa come 3.8 dribbling a partita. Khvicha Kvaratskhelia, ossia il giocatore più luminoso dello scorso campionato, è fermo a 2.4. Rafael Leão addirittura a 1.7. Forse l’argentino non è ancora il giocatore più efficace del campionato, ma molto probabilmente è il più bello da osservare.

Il modo in cui salta l’avversario si porta dietro una carica ancestrale. Ricorda le finte dei sudamericani di una volta, di quei giocatori di cui tutti sentivano parlare ma che in pochi riuscivano a vedere, magari grazie alla bassa risoluzione del tubo catodico. Il dribbling come atto di ribellione, come bluff volto ad affermare se stesso. Il suo mancino affilato gli è valso una miriade di soprannomi. Piccolo Messi, nuovo Di Maria, futuro Dybala. Proprio col romanista Soulé ha condiviso un nomignolo. La “Joya”. Che non vuol dire “Gioia”, come hanno ripetuto in molti, ma il “Gioiello“. È un’etichetta che si porta dietro sempre. Prima nell’Argentinos del Sud. Poi nel Kimberley. Infine nel Velez Sarsfield. Tanto che quando a sedici anni ha firmato con la Juventus, il ragazzo e la sua famiglia hanno ricevuto delle minacce. Un quotidiano argentino, qualche tempo fa, lo ha definito un giocatore “desequilibrante”, uno capace di mandare in frantumi l’equilibrio grazie al suo uno contro uno. È una definizione perfetta per racchiudere il suo estro, la sua fantasia, la sua incoscienza.

Alla Juve è arrivato insieme al suo connazionale Enzo Barrenechea. E i primi momenti non sono stati semplici. I due sono diventati non amici, ma “hermanos”, fratelli. A stringerli è stato il Covid, che ha reso difficili i contatti con l’esterno. Ma anche il bisogno di sentirsi in famiglia. Ai tempi della Next Gen della Juventus erano finiti anche al centro di un piccolo documentario. Mostrava la loro giornata, le loro abitudini, il loro vivere a contatto con i genitori per sentirsi a casa. In poco più di tre anni i loro sogni si sono trasformati prima in speranze e poi in certezze. Per Matias sono arrivate le presenze con la prima squadra. In Serie A e in Europa. Poi a Frosinone ha trovato il luogo giusto dove dare continuità alle proprie doti. Grazie anche a un carattere fatto di molto genio e poca sregolatezza. “Si diverte allenandosi – ha raccontato Di Francesco – lo devo cacciare dal campo”. Il tecnico lo ha paragonato al primo Berardi. Per i colpi in campo. Ma anche per la serietà fuori dal rettangolo di gioco. Una serietà che viene da lontano. “Mio padre ha fatto per 35 anni il postino – ha detto Soulé – lavorava 14 ore. Ora lui e mia madre sono qui e non lavorano. Vorrebbero fare qualcosa, ma non farli lavorare ora per me è un piacere”. Una frase che si riconnette al concetto di restituzione. E che ricorda che per guardare avanti, a volte, è necessario guardare indietro. Ora Soulé si trova davanti alla sfida più importante della sua carriera: dare continuità a un avvio di stagione abbacinante. “Dopo i due gol contro il Cagliari è sparito” ha detto Di Francesco. Parole che diventano lezione. Perché in molti sono capaci di brillare solo per qualche secondo, ma in pochi sono in grado di non farsi offuscare dalle nubi. E Soulé sembra in grado di dribblare anche le nuvole.

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