Il giudice delle indagini preliminari di Torino ha archiviato l’inchiesta nata per fare luce sulla morte di Antonio Raddi, il 28enne che a fine 2019 morì per un’infezione dopo aver perso quasi trenta chili mentre era detenuto nel carcere delle Vallette. Il fascicolo aperto dalla Procura ipotizzava l’omicidio colposo e le lesioni colpose a carico di quattro medici penitenziari, che avrebbero sottovalutato lo stato di malnutrizione e “grave deperimento” del giovane. Raddi rifiutò un ricovero programmato e per questo, secondo il giudice, non si può contestare nulla ai sanitari del carcere. Il procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo aveva chiesto l’archiviazione già una prima volta, ma era stata respinta dal gip che aveva disposto nuovi accertamenti. Anche dopo questa seconda richiesta dei pm i legali dei genitori si erano opposti aggrappandosi a poche righe messe nero su bianco dai consulenti della Procura: “Risulta il difetto di approfondite verifiche che, in corso di dimagrimento del detenuto, dovevano essere attuate quantomeno dal mese di settembre-ottobre 2019. Se messi in atto, avrebbero potuto arginare lo stato di malnutrizione”.
Se con il decreto del gip sfuma la possibilità di individuare delle responsabilità penali, ora i familiari hanno intenzione di portare la perizia al giudice civile per chiedere un risarcimento all’amministrazione penitenziaria e, parallelamente, portare il caso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “Nemmeno il giudice ha contestato le conclusioni dei periti, perciò ci baseremo su quelle. È un caso che è stato chiuso troppo precipitosamente e mi rammarico che non si sia potuto accertare la verità in un processo”, ha dichiarato l’avvocato Federico Milano, che insieme a Gianluca Vitale assiste la famiglia. “Stiamo ragionando su altre strade per ottenere giustizia, perché le consulenze ci dicono che c’è una deficienza di sistema. Sono gli stessi medici a dirci che la mancata presa in carico è stata deterministica”, il commento del collega. Per investire la Cedu ci sono tre mesi di tempo, mentre la causa civile resta percorribile senza vincoli.
Ad aprile 2019 Antonio Raddi, che sin dall’adolescenza soffriva di ansia e depressione ed era seguito da un Serd per via della tossicodipendenza, era tornato in carcere dopo essere evaso dalla comunità terapeutica. Dopo aver già perso oltre 30 chili dal primo ingresso in carcere, a Ivrea, aveva continuato a perdere peso anche nel penitenziario di Torino, pur essendo monitorato periodicamente da medici, addetti del Serd, educatori e psichiatri. Al personale aveva raccontato a più riprese di grosse difficoltà a mangiare, nausea continua e dolori alle gambe. Tutto documentato dai referti medici, che avevano segnalato anche una resistenza alle cure, secondo i periti spiegabile con il “quadro psicoemotivo” di una persona con disturbi mentali e trattata con il metadone.
In un primo momento il personale pensava che il suo fosse uno sciopero della fame mirato a ottenere l’incompatibilità col carcere, tesi sposata anche dal magistrato di sorveglianza. Quando però la situazione aveva iniziato a precipitare, i sanitari del carcere avevano programmato il ricovero nel “repartino” dell’ospedale Molinette, poi slittato al 10 dicembre e rifiutato dal diretto interessato, benché fosse ormai gravemente denutrito e debilitato. Quando era stato ricoverato d’urgenza, il 14 dicembre, il 28enne aveva difese immunitarie ormai ridotte al minimo, tanto che un comune batterio presente nello stomaco era stato libero di aggredire i polmoni causandogli uno shock settico e la morte. “È un doppio fallimento, enorme: per la morte di Antonio e per la nostra voce che è rimasta inascoltata”, ha dichiarato la Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo, che aveva incontrato più volte Raddi durante la detenzione e aveva inviato diverse segnalazioni allarmate alla direzione del carcere. Un muro di gomma che l’aveva convinta a far venire a Torino il Garante nazionale, che si presentò dal responsabile sanitario quindici giorni prima dell’ultimo ricovero. “È difficile constatare che anche il nostro intervento non è stato in grado di cambiare le sorti di questa persona”.