Due giorni dopo l’inizio della rappresaglia israeliana a Gaza, il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, ha dichiarato: “Non vogliamo la violenza, siamo pacifisti, non vogliamo che alcun essere umano di qualsiasi nazionalità perda la vita, sia che provenga da Israele, sia che sia palestinese, vogliamo che sia garantito il diritto umano più importante, che è il diritto alla vita”. Poi è stata la volta di Maduro, presidente del Venezuela, che attaccando il silenzio e l’assenza di condanna del mondo occidentale, in primis degli Stati Uniti, su quanto perpetrato dal governo Netanyahu, ha dichiarato: “Il segretario Generale dell’Onu ha rilasciato una dichiarazione che abbiamo letto con attenzione, di allerta, di allarme di fronte al genocidio iniziato contro il popolo palestinese a Gaza”. Qualche giorno dopo è intervenuto anche il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, secondo cui “quello che sta accadendo in questo momento in Medio Oriente è molto grave. Non si tratta di discutere chi ha ragione o chi ha torto. Il problema è che non si tratta di una guerra, ma di un genocidio che ha già ucciso quasi 2mila bambini che non hanno nulla a che fare con questa guerra, che sono vittime”. Mentre nelle ultime ore la Bolivia ha deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con Tel Aviv e Cile e Colombia hanno richiamato in patria i propri ambasciatori.
Quasi tutti i governi del Latino America che si ritengono “progressisti” prendono posizione netta contro Israele e di fatto evidenziano una distanza politica determinante con Washington e il governo Biden. Il presidente del Cile, Boric, ha così sostanziato la scelta di richiamare l’ambasciatore: “Le operazioni militari, che sono ora diventate una punizione collettiva alla popolazione civile palestinese a Gaza, non rispettano le norme fondamentali del diritto internazionale, come dimostrano le oltre 8mila vittime civili, in gran maggioranza donne e bambini”. Mentre quello colombiano Petro ha detto: “Se Israele non ferma il massacro del popolo palestinese, non possiamo rimanere lì”.
Non è una novità che il mondo latinoamericano solidarizzi con la Palestina e critichi la condotta di Israele prendendo le distanze dall’Occidente e dagli Stati Uniti che tendono ad assecondare le scelte di Tel Aviv. Ad agosto la Riunione di Antropologia del Mercosur, tenutasi a Rio De Janeiro, ha redatto una risoluzione dove si diceva: “Questo è un impegno pubblico e accademico nella lotta contro il razzismo”. E poi ancora: “La costruzione di muri e checkpoint – modalità quotidiane d’occupazione – e la soppressione delle popolazioni indigene rappresentano una ripetizione perversa delle odierne pratiche dell’apartheid nel XXI secolo”. Antropologi e antropologhe hanno anche speso parole sulla Nakba e sulle costanti violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
Questa presa di posizione opposta al fronte occidentale si era vista anche nei giorni dell’invasione russa dell’Ucraina e racconta come ci siano interpretazioni, e interessi, assai diversi tra i due blocchi. Il mondo non è uguale per tutti e il primato occidentale, e quindi gli interessi di quel pugno di Paesi che si riconoscono in questo concetto, è messo giornalmente in discussione da attori e interessi geopolitici differenti. Allo stesso tempo le differenze che intercorrono tra Venezuela, Bolivia, Cile, Colombia e Messico non permettono di tirare una linea di congiunzione di interessi, ma è certo esplicito come questi Paesi, assieme a Nicaragua e Cuba, che non hanno preso apertamente posizione ma allo stesso tempo sono stati aspramente criticati per non aver nemmeno condannato l’azione militare di Hamas del 7 ottobre, vedano il mondo in maniera molto differente rispetto all’Occidente: il governo d’Israele non è un soggetto che non si può criticare, gli interessi israeliani – pur fortissimi in America Latina – non condizionano così tanto.
Ci sono poi Paesi dello stesso continente dove la politica ha preso posizioni a favore di Tel Aviv. In primis l’Argentina, dove la comunità israeliana è la più numerosa del continente. Sia il presidente Alberto Fernandez che i due candidati a sostituirlo dopo il ballottaggio del 19 novembre hanno solidarizzato con Israele e nella capitale, Buenos Aires, si sono viste manifestazioni pro Israele a differenza delle tantissime dimostrazioni di solidarietà con il popolo palestinese che hanno attraversato la maggior parte dei Paesi del continente. C’è da dire che, comunque, anche il governo argentino ha duramente criticato l’operato di Israele a Gaza, ad esempio in occasione del bombardamento del campo profughi di Jabalia: “Nulla giustifica la violazione del diritto internazionale umanitario e dell’obbligo di proteggere la popolazione civile nei conflitti armati, senza fare alcuna distinzione“, si legge in una nota del ministero degli Esteri.
Poi c’è lo stravagante e autoritario presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che via X ha scritto: “Come salvadoregno con origini palestinesi, sono sicuro che la cosa migliore che potrebbe accadere al popolo palestinese è che Hamas scompaia completamente. Quelle bestie selvagge non rappresentano i palestinesi. Chiunque sostenga la causa palestinese commetterebbe un grande errore nello schierarsi con quei criminali. Sarebbe come se noi salvadoregni ci fossimo schierati con i terroristi della MS13 solo perché condividiamo antenati o nazionalità”.
Questa frammentazione mostra la debolezza del continente sul piano degli equilibri mondiali e come i diversi Paesi, e i loro governi, si muovano in autonomia nel palcoscenico politico e negli equilibri geopolitici. Non esistono posizionamenti automatici con il mondo occidentale e nemmeno con la Cina e la Russia. I Paesi decidono di volta in volta e secondo le loro geometrie d’interesse. Anche per questo oggi il continente è terreno di scontro d’interessi tra le grandi potenze ed è impossibile vedere il Latino America ancora solamente come il giardino di casa degli Stati Uniti.