È come se, nottetempo, ti cambiassero il sistema operativo del pc su cui lavori dieci ore al giorno, o anche solo l’immagine di sfondo alla quale ti sei affezionato. È questa, banalmente, l’impressione che fa la riforma costituzionale approvata dal Consiglio dei ministri: quattro interventi di basso profilo che però, o proprio per questo, rischiano di innescare una ulteriore svolta autoritaria nella nostra democrazia. Istituzione fragile, questa, che non si basa tanto sul voto popolare, che viene e va, bensì sulla separazione o più precisamente l’equilibrio dei poteri costituzionali: proprio ciò che dalla riforma esce forse non vistosamente ma sostanzialmente alterato.
È dai tempi della Prima repubblica che si parla di un rafforzamento dell’esecutivo, ma sbagliando. Come mostro in un libro recente, è almeno dalla prima guerra mondiale che i poteri dell’esecutivo crescono esponenzialmente. Hanno continuato a crescere anche dal 1948 in poi, a testo costituzionale invariato, e con loro i poteri delle Regioni, oggetto di un’altra riforma potenzialmente autoritaria, l’autonomia differenziata del leghista Calderoli. Si pensi solo alla maggiore posta del bilancio regionale, la Sanità pubblica: oligarchi popolarissimi come i “governatori” Zaia e De Luca la stanno già svendendo ai privati, cosa faranno con poteri aumentati?
Va anche detto che il rafforzamento dei poteri di governo tramite elezione popolare è percepito in modo distorto dall’opinione pubblica. Mattarella e Draghi, i governanti più popolari degli ultimi anni, sono stati votati dal Parlamento, non dal popolo. Eppure, i sondaggi registrano una crescita costante della richiesta di elezione diretta dei governanti: competenza, esperienza, merito non contano nulla. Così, benché il nostro paese sia stato salvato molte volte da tecnici – Ciampi, Dini, Monti e Draghi, per non parlare di Conte – Meloni ha vantato come un successo suo e dell’intera riforma l’aver tolto a Mattarella il potere di nominare premier un tecnico.
Del resto, così ragionano populisti, sovranisti e fondamentalisti, come i vari Trump, Erdogan, Orbán e Netanyahu, tutti scelti più o meno direttamente dagli elettori. Non a caso il programma di governo di Meloni contemplava il presidenzialismo, questo rottame in crisi in tutto il mondo. Poi qualcuno dei suoi consiglieri, forse la sorella, il cognato o lo stesso Giambruno, deve averle suggerito di ripiegare sul premierato, sperimentato solo in Israele, dal 2002 al 2012, e poi abbandonato pure lì. Che poi è il Sindaco d’Italia, inventato guardandosi allo specchio dall’ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e respinto con referendum nel 2016, solo sette anni fa.
Eppure, c’è il rischio concreto che questa riforma costituzionale targata Fratelli d’Italia, insieme con l’autonomia differenziata in quota Lega – a Forza Italia cosa daranno, le ultime spoglie della Rai? – dalla prossima legislatura diventi la nostra Costituzione. E non solo: Meloni, ancora stordita da settimane di fuori onda e di false interviste russe, ha proclamato che questo è solo l’inizio: la riforma costituzionale è la madre di tutte le riforme, con essa comincia la Terza Repubblica. Io francamente spero di no: già hanno dovuto rimangiarsi la legge elettorale con premio di maggioranza in Costituzione, e spero che debbano rimangiarsi, oltre a tutto il resto, una cosa che proprio non mi va giù, l’abolizione della nomina presidenziale dei senatori a vita. Pensate solo a Liliana Segre: quando mai sarebbe entrata in Parlamento, se Mattarella non l’avesse nominata?