Luis de Góngora y Argote (Cordova 1561, ivi 1627) incarna uno dei vertici del Barocco e di tutta la poesia occidentale; la sua geniale sensibilità per i valori lessicali e sonori, il gusto per una sintassi concepita come un susseguirsi di ardite architetture, l’amore per i riferimenti dotti (più o meno velati) si espressero in forme poetiche che vanno dal sonetto al romance (componimento classico castigliano di argomento epico-lirico), alla letrilla (altro tipo di componimento classico di argomento leggero); l’autore delle Soledades (1613) – vasta opera in poesia che suscitò un enorme scandalo per l’impossibilità di classificarla entro un genere letterario preciso e per la fantasia sbrigliata che ne fa un organismo di estrema complessità linguistica, sintattica e concettuale – e della Favola di Polifemo e Galatea – elegantissimo poema mitologico dalle marezzature coloristiche e linguistiche indimenticabili – amava i riferimenti colti (culteranesimo e concettismo fu detta questa sua scelta di gusto che ebbe numerosi proseliti e altrettanto numerosi denigratori).
Nella mia traduzione ho preferito esplicitare tali riferimenti per ragioni di chiarezza (evitando eventuali, fastidiose note esplicative); ho preferito tradurre soltanto alcuni sonetti che, spero, possano incuriosire e spingere a leggere un’opera di gran lunga più vasta e dagli echi profondi e variegati; ho optato per una traduzione il più possibile trasparente, rinunciando alla resa delle rime, delle allitterazioni, delle inversioni e via enumerando che, a loro volta, caratterizzano una poesia nella quale Lorca e gli altri grandi poeti della Spagna degli anni Venti e Trenta si riconobbero, ammirati e stimolati a cercare vie nuove per la poesia del XX Secolo.
D.
(1584)
Quella dolce bocca (invita ad assaporare
un umore distillato tra perle
e a non invidiare la sacra ambrosia
che Ganimede versa a Giove)
– o amanti! – non sfioratela se desiderate vita ancora
perché tra le due vive labbra
sta Amore armato del suo veleno
– serpente acquattato tra i fiori.
Non v’ingannino le rose che,
perlacee e odorose, direte caddero
dal seno di porpora dell’Aurora:
sono mele di Tantalo e non rose:
sfuggiranno a colui che ora seducono
– di Amore resta soltanto il veleno.
(1584)
Immaginazione multicolore, che con mille intenti
sprechi a danno del tuo triste padrone
i dolci nutrimenti del blando sonno
alimentando pensieri vani,
poiché conduci gli spiriti raccolti
a rappresentarmi soltanto il grave aspetto
del volto dolcemente ritroso
(gloriosa sospensione dei miei tormenti),
il sonno (regista di finzioni)
nel suo teatro eretto sul vento
suole vestire le ombre di bei corpi.
Seguilo; ti mostrerà il volto amato
e per un tratto inganneranno le tue passioni
due beni che saranno il dormire e il vederlo.
(1585)
A CORDOVA
O eccelse mura, o torri coronate
d’onore maestà e gagliardia!
O gran fiume, grande re di Andalusia,
dalle nobili sabbie se non d’oro!
O fertile pianura, o alti monti
onorati dal cielo e dorati dal giorno!
O sempre gloriosa mia patria
tanto nelle lettere che nelle armi:
se tra quelle rovine e quelle spoglie
bagnate dai fiumi di Granada
il tuo ricordo non è stato mio nutrimento,
mai meritino i miei occhi assenti
di rivedere le tue mura, le tue torri e il tuo fiume,
la tua pianura e la montagna, o patria mia, o fiore di Spagna!
(1594)
DI UN VIANDANTE AMMALATO CHE S’INNAMORÒ LÀ DOVE FU OSPITATO
Sviato, ammalato il viandante
in una notte di tenebre, malcerto il piede,
avanzando per una landa deserta,
chiamò invano, incerti i suoi passi.
Ripetuto abbaiare (se non prossimo,
ben distinto) udì di un cane sempre sveglio
e in una malmessa casupola di pastori
trovò pietà non avendo trovato la strada.
Spuntò il sole e, celata tra ermellini,
assonnata beltà con dolce furia
assalì il malandato passante.
Egli pagherà l’ospitalità con la vita;
sarebbe stato meglio errare nella montagna
e non morire del destino di cui io muoio.
(1603)
Se Amore tra le piume del suo nido
mi rubò la libertà, che cosa farà adesso
che nei tuoi occhi, dolcissima mia signora,
vola armato, poiché è nudo?
Fui ferito tra le viole
dal serpente che oggi dimora tra i gigli;
avevi la forza, quand’eri ancora aurora,
di adesso, pari al sole alto levato.
Saluterò con voce dolente la tua luce,
come tenero usignolo che in dura prigionia
si lamenta – ma dolcemente.
Dirò di come vidi la tua fronte
coronata di raggi e che la tua bellezza fa
cantare gli uccelli, piangere la gente.
(1614)
ISCRIZIONE PER IL SEPOLCRO DI DOMENICO GRECO
Questa in forma elegante, o pellegrino,
dura chiave di porfido lucente
il pennello preclude al mondo più soave
che seppe donare anima al legno, vita alla tela.
Il suo nome, degno di maggior respiro
di quanto ne scorra nelle trombe della Fama,
illustra il campo di questo marmo pesante.
Sosta in venerazione, prosegui poi il tuo viaggio.
Qui giace il Greco. Da lui ereditò la Natura
arte e l’Arte studio; Iride i colori;
il Sole le luci – il Sonno le sue ombre.
Un’urna così, quantunque dura,
beva le lacrime e quanti odori essuda
la funebre scorza dell’albero dell’incenso.